Pubblicato: mar, 13 Lug , 2021

Pasolini, l’amore e…il calcio.

Perché una partita non è mai solo una partita.

 

“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”.

A parlare era un tale Pier Paolo Pasolini, un dei più grandi intellettuali italiani che aveva saputo cogliere il verso senso di questo sport, talmente aggregante da far dimenticare tutto il resto per 90min.

Giocava spesso a calcio, uno dei suoi amori più forti. Pasolini lo chiamava football e nel dirlo all’inglese, al modo dei vecchi maestri del gioco, si dice già un’epoca, quando il calcio era giocato da terzini, mezzali e mediani. Lui era un’attaccante nato, ala sinistra, oggi diremmo un esterno alto. Diceva che gli attaccanti non dovevano solo fare goal, ma dare l’esempio ai compagni di squadra e lui in questo era maestro dentro e fuori dal campo. Tra gli amici di Casarsa, si conquistò il soprannome di “Stukas” – <<ricordo dolce -bieco>> -vista la sua velocità, come i bombardieri tedeschi della Luftwaffe ritratti da uno sconvolto Picasso nella sua Guerníca.

Per la sua passione calcistica illimitata Pasolini assimila in modo alquanto originale il calcio a un vero e proprio linguaggio, coi suoi poeti e prosatori, e definisce il football un sistema di segni, cioè un linguaggio, che ha tutte le caratteristiche fondamentali di quello scritto-parlato:

“Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato”. Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto. I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci).

Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”: e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.

I “podemi” sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le “parole calcistiche” sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei “podemi” (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella “partita”, che è un vero e proprio discorso drammatico.

I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice.

Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi).

Non sono né Roland Barthes né Greimas, ma da dilettante, se volessi, potrei scrivere un saggio ben più convincente di questo accenno, sulla “lingua del calcio”.

Penso, inoltre, che si potrebbe anche scrivere un bel saggio intitolato Propp applicato al calcio: perché, naturalmente, come ogni lingua, il calcio ha il suo momento puramente “strumentale” rigidamente e astrattamente regolato dal codice, e il suo momento “espressivo”.

Ho detto infatti qui sopra come ogni lingua si articoli in varie sottolingue, in possesso ciascuna di un sottocodice.

Ebbene, anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere: anche il calcio possiede dei sottocodici, dal momento in cui, da puramente strumentale, diventa espressivo.

Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico.

Per spiegarmi, darò – anticipando le conclusioni – alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un “prosatore realista”; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un “poeta realista”.

Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”: è un poeta un po’ maudit, extravagante.

Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”. Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul “Corriere della Sera”: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.

Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica.

Tuttavia intendiamoci: la letteratura italiana, specie recente, è la letteratura degli “elzeviri”: essi sono eleganti e al limite estetizzanti: il loro fondo è quasi sempre conservatore e un po’ provinciale… insomma, democristiano. Fra tutti i linguaggi che si parlano in un Paese, anche i più gergali e ostici, c’è un terreno comune: che è la “cultura” di quel Paese: la sua attualità storica.

Così, proprio per ragioni di cultura e di storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia.

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico.

Anche il “dribbling” è di per sé poetico (anche se non “sempre” come l’azione del goal). Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai. E un sogno (che ho visto realizzato solo nei Maghi del pallone da Franco Franchi, che, sia pure a livello brado, è riuscito a essere perfettamente onirico).

Chi sono i migliori “dribblatori” del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani. Dunque il loro calcio è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal.

Il catenaccio e la triangolazione (che Brera chiama geometria) è un calcio di prosa: esso è infatti basato sulla sintassi, ossia sul gioco collettivo e organizzato: cioè sull’esecuzione ragionata del codice. Il suo solo momento poetico è il contropiede, con l’annesso “goal” (che, come abbiamo visto, non può che essere poetico). Insomma, il momento poetico del calcio sembra essere (come sempre) il momento individualistico (dribbling e goal; o passaggio ispirato).

Il calcio in prosa è quello del cosiddetto sistema (il calcio europeo): il suo schema è il seguente:

catenaccio –> triangolazioni –> conclusioni

Il “goal “in questo schema, è affidato alla “conclusione”, possibilmente di un “poeta realistico” come Riva, ma deve derivare da una organizzazione dei gioco collettivo, fondato da una serie di passaggi “geometrici” eseguiti secondo le regole del codice (Rivera in questo è perfetto: a Brera non piace perché si tratta di una perfezione un po’ estetizzante, e non realistica, come nei centrocampisti inglesi o tedeschi).

Il calcio in poesia è quello del calcio latinoamericano: il suo schema è il seguente:

discese concentriche –> conclusioni

Schema che per essere realizzato deve richiedere una capacità mostruosa di dribblare (cosa che in Europa è snobbata in nome della “prosa collettiva”): e il goal può essere inventato da chiunque e da qualunque posizione. Se dribbling e goal sono i momenti individualistici poetici del calcio, ecco quindi che il calcio brasiliano è un calcio di poesia. Senza far distinzione di valore, ma in senso puramente tecnico, in Messico è stata la prosa estetizzante italiana a essere battuta dalla poesia brasiliana.

Pier Paolo Pasolini, da Il giorno, 3 gennaio 1971

Una emozionante lezione di quella che potremmo definire: letteratura calcistica.

Facendo un parallelismo con i nostri tempi, sono anni che la parola ‘calcio’ va a braccetto con ‘disincanto’, in primis per chi vi scrive. Si taccia questo sport di non rispecchiare più i sentimenti popolari, di esser diventato un lusso per ricchi, di essersi allontanato dalle folle, di essere in mano di pochi…ed è così. Riscontriamo ben altri sentimenti però, quando si parla di tornei internazionali e ci si ritrova tutti sotto le bandiere nazionali. Certo, è anche un po’ triste constatare che l’unico grande evento che riesce a portare milioni di persone in piazza e milioni di bandiere ai balconi, sia rimasto solo lo sport, al contrario di lotte per i diritti, feste nazionali o ricorrenze storiche, ma la colpa non è del popolo.

Leggendo bene Pasolini, possiamo capire come in realtà l’unica cosa che non sia mutata sia la passione e il fenomeno-calcio. Lo stesso non si può dire per tutto il resto in questa nazione, partendo dalla classe politica e la loro credibilità, loro si che hanno disincantato davvero tutti. Il calcio non è mezzo di distrazione di massa, lo è semmai la politica, oggi. Gioire una notte dei successi dello sport, non fa dimenticare i problemi a nessuno, e non li risolve a nessuno. È una retorica odiosa e stupida, messa in piedi solo per denigrare il “popolo stupido”, sempliciotto, e dunque convincerlo d’essere facile da manipolare, non è così.  C’è ancora amore, romanticismo, passione.

Sicuramente se oggi fosse ancora vivo, non riserverebbe commenti docili al nostro calcio nazionale, così come a quello di mezza Europa (serie A, Premier, Liga ecc.), con ogni probabilità, riserverebbe al nostro pallone qualche corsivo a malapena. Pungete, salace ma estremamente critico. Avrebbe scarsa simpatia per una prosa spinta agli estremi di stampo blaugrana, forse, presa a modello dalle squadre di mezzo mondo. Ma non solo. Ne avrebbe ancor meno per un calcio di conseguenza massificato, in ogni suo aspetto, venduto al Potere, simbolo di quella omologazione culturale che teorizzava più di quarant’anni fa, e dalla quale era sinceramente spaventato.

Un calcio nutrito, ingrassato e sottomesso dalle televisioni, che ne dettano oramai tempi, modi, usi e consumi, stravolgendolo totalmente. Lui, prima, se non di tutti, perlomeno di molti, sapeva pur senza avere le prove. Lui, Pier Paolo Pasolini, ancorato «all’idealismo liceale, quando giocare al pallone era la cosa più bella del mondo».

Non ci resta che conservare come gioielli rari le notti magiche della nostra Nazionale, ultimo baluardo di quel calcio ormai in estinzione.

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