Pubblicato: ven, 5 Mag , 2023

La Notte di Aldo Moro e Peppino Impastato

9 maggio 1978: una notte oscura per la Repubblica, due omicidi, vittime eccellenti animate da coraggio e ideali

Da un lato, Aldo Moro, politico e giurista, fulcro della Democrazia Cristiana, Presidente del Consiglio, rapito [formalmente] dalle Brigate Rosse e ucciso dopo 55 giorni di prigionia.

Dall’altro, nella stessa notte gli italiani perdono anche Peppino Impastato, un giovane giornalista, attivista e poeta italiano, noto per le sue denunce contro le attività di Cosa Nostra. La consorteria mafiosa decide di fare passare il suo omicidio per un attentato suicida, il cadavere venne fatto saltare con il tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani.

Peppino, nato a Cinisi, in provincia di Palermo, è un figlio della mafia, ma inaspettatamente se ne dissocia e sceglie di passare all’opposizione. Rompe i rapporti con il padre, viene cacciato di casa. Fonda il giornalino L’idea socialista, aderisce al PSIUP, prendendo le difese di poveri e contadini, costituisce il gruppo Musica e Cultura, per promuovere attività culturali.

Punta ad abbattere l’omertà, esorcizzare l’alone di mistero e paura legato agli affiliati. Occorre informare per fermare. Perché il silenzio uccide, quasi più della mafia. Fonda Radio Aut : emittente libera ed autofinanziata, con cui denuncia a voce alta delitti e affari della mala (soprattutto traffici internazionali di droga, agevolati dal controllo di Cosa Nostra anche sull’aeroporto). E’ l’epoca del capomafia Gaetano Badalamenti, più e più volte pubblicamente denunciato e deriso da Peppino, anche tramite la sua satirica quanto irriverente Onda Pazza, programma radiofonico ascoltato in tutta la Sicilia – e non solo.

Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali, ma non fa in tempo a sapere l’esito delle votazioni perché viene assassinato. La sua condanna a morte probabilmente era stata firmata già due anni prima, quando si era messo sulle tracce della strage di Alcamo Marina, avvenuta nel gennaio 1976, in provincia di Trapani.

In quell’occasione fu forzata la porta della casermetta Alkamar della stazione dei CC con la fiamma ossidrica; i due carabinieri in turno, il diciannovenne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, furono crivellati. Alle sette del mattino, la scorta del segretario MSI Giorgio Almirante, che stava passando sulla statale decide di deviare sino alla casermetta, rivenendo i corpi.

I carabinieri coordinati dal maggiore Subranni e dall’allora capitano Giuseppe Russo, entrambi in amicizia con Badalamenti, perquisirono la casa di Peppino, accusandolo di essere coinvolto assieme a Giuseppe Vesco.

Peppino si convince che gli omicidi siano stati eseguiti da alcuni carabinieri e da parti deviate dei servizi segreti. Ben sapeva quanto i depistaggi fossero all’ordine del giorno per coprire alcuni settori pericolosi e nascosti a livello istituzionale. La falsa pista e gli avvertimenti nemmeno troppo velati a lui indirizzati erano un segnale inequivocabile. Iniziò ad interessarsi attivamente alla strage della casermetta, raccogliendo informazioni e notizie in un dossier (di cui si trova traccia in un verbale di sequestro dei carabinieri).

Il capitano Russo fu complice nel depistaggio e fece in modo di condannare quattro giovani innocenti: Giuseppe Gulotta, Giovanni Mandalà, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. Giuseppe Vesco, che confessò la strage e accusò i quattro giovani, ritrattando subito dopo, fu trovato misteriosamente impiccato in carcere, sebbene avesse una sola mano.

Dopo molti anni, il carabiniere pentito Olino ha confermato che Russo aveva estorto con la tortura le confessioni per l’eccidio di Alcamo.

Peppino parlò di un campo militare gestito da personaggi della destra eversiva. Era una delle basi segrete di Gladio, l’organizzazione paramilitare attiva dal dopoguerra che aveva il compito di limitare o distruggere i comunisti fino agli anni ’50, ma rimasta attiva anche successivamente. Gladio ha sempre vantato collegamenti in più direzioni, tra cui anche le forze dell’ordine colluse.

Il boss mafioso Badalamenti avrebbe voluto eliminare subito Peppino, ma “uomini in grigio”, gli diedero indicazioni di pazientare. Cosa Nostra era stata contattata da Roma e ne ascoltava le direttive. La data esatta fu comunicata proprio dai colletti bianchi, che decisero anche per il finto attentato.

Peppino era un giovane che si opponeva apertamente al boss locale e alla mafia tutta, tanto da rinnegare la sua stessa famiglia. Sbeffeggiava i capi, ficcava il naso in affari di politica con il chiaro intento di fare azione di disturbo. Niente male per un appena trentenne che si cimentava in tutto questo a Cinisi, non in segreto in un altro stato, sotto copertura e con la scorta armata. No, lui camminava per le strade del paesello con il coraggio grande di fermare il lato oscuro dell’Italia, guardando in faccia ogni giorno i suoi assassini. Le indagini sulla base militare e relativi movimenti contribuirono alla sua condanna a morte, fatta per mano di Tano Badalamenti.

La sua casa venne nuovamente perquisita; i militari portarono via numerosi documenti, tra cui il famoso dossier “Giuseppe Vesco – Strage casermetta di Alcamo”. Peppino ipotizzava che in una normale operazione di servizio, i due carabinieri uccisi avessero involontariamente fermato un pulmino che trasportava armi per l’arsenale di Gladio. La cartella con i documenti fu sequestrata poco dopo la sua morte, e mai più restituita (Intervista a Giovanni Impastato, Sabina Guzzanti).

Il 9 maggio 1979, un anno dopo la morte di Peppino, ci fu la prima manifestazione nazionale della storia d’Italia contro la mafia, a cui parteciparono oltre 2000 persone provenienti da tutto il Paese.

I decenni successivi ci rivelarono che il Ministro dell’interno Cossiga e il neo capo del governo Andreotti avessero informazioni dall’intelligence su dove era stato segregato Aldo Moro, e che si recarono in via Caetani “due ore prima di quanto la storia e i verbali abbiano tramandato”. (Paolo Guzzanti sul Giornale, La bomba umana dell’agente Raso e testimonianza del ministro Claudio Signorile). Il boss Balduccio Di Maggio rivelò di aver visto Totò Riina, il capo di Cosa Nostra, baciare rispettosamente Andreotti, punciutu, nella Palermo del 1987. Lo stesso Riina, qualche anno fa, aveva confermato l’incontro con il Divo. D’altra parte, anche il caso Impastato stava disturbando: l’appoggio logistico (di Gladio, P2 e Cosa Nostra) in Sicilia comportava complicità e collaborazioni.

Il colonnello Russo venne ucciso dalla cupola mafiosa, mentre Antonio Subranni, fu indagato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, per favoreggiamento della latitanza del boss Bernardo Provenzano (sempre Cosa Nostra). La Procura di Palermo lo ha ritenuto uno tra i più alti punti di riferimento istituzionale nella cosiddetta trattativa Stato-Mafia instaurata con Cosa Nostra, in concorso con Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri, gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino e l’ex ministro Nicola Mancino.

La Procura riaprì il caso sul depistaggio di Subranni nelle indagini per la morte di Peppino Impastato. Agnese Borsellino, moglie del giudice Paolo Borsellino, aveva rivelato che il marito poco prima di essere ucciso aveva detto : “Ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu” (affiliato alla mafia).

Il collaboratore di giustizia Francesco De Carlo aveva dichiarato: “il generale Subranni, l’ho visto più di una volta negli uffici dei cugini Salvo (potenti esattori mafiosi e grandi elettori della Dc). Nel caso di Impastato, si è mosso Nino Salvo che voleva aiutare Badalamenti; si è rivolto al generale Subranni per fare chiudere bene questa faccenda”. Sua figlia, Danila Subranni è stata portavoce di Alfano, ministro prima della Giustizia e poi dell’Interno, successivamente speaker del ministro Gelmini; da anni a Montecitorio come responsabile della comunicazione.

La condanna di Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi è arrivata solo nel 2002, 24 anni dopo l’assassinio.

Nel 2001 la Commissione Parlamentare Antimafia ha consegnato alla mamma di Peppino, Felicia, la relazione approvata all’unanimità che riconosceva le responsabilità di magistrati ed alte cariche delle forze dell’ordine nel depistaggio delle indagini sul Caso Impastato.

Nella primavera del 2005 nasce Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, in ricordo di entrambi, avamposto della resistenza contro il potere e la mafia, testimonianza di coraggio ad oltranza. Qualche anno dopo tornano a vibrare le frequenze della mitica Radio Aut, prima dalla sua stessa casa e poi dall’appartamento di Badalamenti confiscato alla mala. Un esempio, un simbolo che scuote Cinisi, la Sicilia e l’Italia tutta. Per informare, ma anche per portare cultura ed istruzione, unici veri strumenti per ricostruire un paese dilaniato.

Squilla forte Radio Aut, sorretta da un profondo ideale di giustizia e legalità, si anima di migliaia di cuori che battono all’unisono al ritmo dei cento passi. Un faro di speranza in questi tempi moderni, dove tutto sembra venir meno. Il passato è nel presente.

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