Una serata di riflessione sul fenomeno mafioso: “La N’drangheta in Calabria…e in Toscana?”
Siamo immuni dal fenomeno mafioso noi fuori dalle terre d’origine? Perché questa è un’illusione che è urgente svanisca, alla luce delle sempre più puntuali risultanze investigative e processuali
E’ stata iniziativa quanto mai interessante, necessaria e auspicabilmente non episodica quella che si è svolta il 28 luglio scorso alla Ginestra di Montevarchi, organizzata dalla sezione Coop di Montevarchi, il Coordinamento del Valdarno Superiore di Libera e con il patrocinio dell’Amministrazione comunale di Montevarchi, dal titolo “La N’drangheta in Calabria…e in Toscana?”. E’ stato il Procuratore Capo di Firenze Giuseppe Creazzo, magistrato da sempre impegnato in prima linea contro il fenomeno mafioso, a riferire sulla minaccia grave, il primo e più urgente male del nostro Paese, costituita dall’attacco delle mafie alle istituzioni e alla convivenza civile. E un numeroso pubblico, che ha attivamente partecipato con domande che talora hanno evidenziato la consapevolezza del problema, talora la necessità di una maggiore conoscenza del fenomeno, tuttavia è stato per una sera allontanato dall’inquinamento dei media.
“La mafia non esiste”: era la frase ripetuta ancora qualche tempo fa nelle terre d’origine delle mafie. Ci vollero molti morti e stragi perché cominciasse a sentirsi affermazione vana. Oggi così si ripete nelle terre di espansione delle mafie: vale a dire oramai pressoché l’intero territorio nazionale. La mafia esiste invece anche qui, come evidenziano le indagini delle forze dell’ordine e i procedimenti della magistratura: non voci di Cassandre, dunque, ma documenti ufficiali. Le mafie hanno grande capacità di adattamento, assumono aspetto diverso, ma la sostanza è la stessa. Applicano i metodi più avanzati del sistema economico e finanziario insieme ai loro tradizionali e risultano in tal modo altamente concorrenziali, lì dove pecunia non olet e il mercato capitalistico non ha scrupoli o principi d’etica. Perciò le loro aziende godono del favore del sistema bancario; ciò è rivelato dalle indagini e il fatto si ripete puntualmente in tutti i casi esaminati dagli inquirenti e in ognuno d’essi: gli istituti di credito aprono loro facilmente linee di credito, le chiudono non appena, a seguito di provvedimento giudiziario, le aziende confiscate vengano date in gestione a soggetti “puliti”. Non per ragioni di legami criminali, ma per la logica del sistema capitalistico: una logica che a lungo andare si rivela controproducente, ma al profitto manca il senso della storia.
Precisiamo subito che in Toscana, almeno fino ad ora, il fenomeno mafioso ha attecchito meno rispetto ad altre regioni notevolmente corrotte dalle mafie: come Lombardia, Piemonte, dove amministrazioni comunali sono state commissariate per mafia, o più recentemente l’Emilia Romagna. In Toscana è stato più efficace il controllo sociale, la tenuta del tessuto sociale, hanno maggiormente retto le municipalità e il sistema associativo tipico della regione. E tuttavia anche qui il cancro mafioso, sottotraccia per coloro che preferiscono negare, ben più chiaramente per gli inquirenti e le persone attente, ha disteso i propri tentacoli. La “Toscana felix” appetisce l’avidità sfrenata delle mafie. Già nel 1999 il ministro dell’Interno di allora, Enzo Bianco, poté affermare, evidenziando i punti della relazione al Parlamento: “La regione, con la sua economia ricca e dinamica e la sua collocazione geografica centrale, ha facilitato la mimetizzazione nel tessuto sociale di aggregati criminali italiani e stranieri”.
Anche qui le organizzazioni criminali hanno utilizzato la loro arma più potente per propagarsi nelle regioni non tradizionalmente di loro dominio: l’infiltrazione nel sistema delle relazioni sociali. Hanno adoperato la sperimentata capacità di intrecciare rapporti con imprenditori, politici, amministratori, la forza corruttiva insomma. E fin dagli inizi della loro penetrazione, come si evince dalle indagini, Arezzo è stata al centro dei primi accordi sullo smaltimento illecito dei rifiuti tossici, siglati tra clan dei casalesi e imprenditori. Dalle rivelazioni dei pentiti e dalle carte desecretate potrebbe evincersi che probabilmente l’ecomafia è nata in questa provincia.
Sempre nel 1999, nelle relazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia si può leggere: “Anche la potente ndrina Piromalli di Gioia Tauro esercita la propria influenza attraverso appartenenti alle famiglie Priolo, operanti nel Valdarno aretino…” e gli affari cui prevalentemente si dedica la mafia calabrese sono edilizia, movimento terra, lavorazione di inerti, servizi pubblici. Ma l’organizzazione prevalente era già allora la camorra. Viene registrata nelle inchieste e carte processuali, dopo l’arresto di affiliati del clan casertano dei La Torre, la penetrazione nella provincia di Arezzo del clan camorristico Bove-De Paola.
E per quel che riguarda la criminalità campana numerose sono le risultanze investigative che collegano affiliati alle organizzazioni campane a Licio Gelli. La traccia oscura dei rapporti tra massoneria, che ha notevoli radici nell’aretino, e mafie andrebbe meglio esplorata. Nella Relazione della Commissione antimafia del gennaio 2006, il relatore di minoranza, onorevole Giuseppe Lumia, sostiene che ”i rapporti tra Gelli e la camorra casertana erano già emersi negli anni passati”. Se ne parla, per esempio, nell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Milano che nel 1999 portò all’arresto di Pasquale Centore, ex sindaco di San Nicola La Strada, per traffico internazionale di droga. Gli altri casertani coindagati sono stati condannati: il braccio destro di Centore il 19 gennaio 1991 era stato controllato assieme alla moglie nei pressi di Villa Wanda a Castiglion Fibocchi, nota residenza del capo della P2. Un altro avvistamento si è verificato l’anno successivo, il 29 settembre del 1992. Nel 1997, invece, ai cancelli della residenza aretina di Gelli è stato identificato Antonio Belforte, cugino di Domenico e Salvatore Belforte, capi della camorra di Marcianise. Nel 1992 un altro camorrista casertano, Gaetano Cerci, nipote di Francesco Bidognetti, uno dei capi del clan dei casalesi, è stato notato più volte all’ingresso della villa di Licio Gelli. Nella Relazione sulle attività del Procuratore nazionale antimafia del 2011 si legge: “La camorra e in generale i casalesi si sono installati da tempo in Toscana”. Dalle ampie indagini, svolte dalla DDA di Firenze mediante intercettazioni telefoniche, ambientali ed accertamenti bancari, è emersa l’importanza della Toscana e soprattutto dell’aretino, una delle province, su tutto il territorio nazionale, più interessate dal riciclaggio del denaro illecito. Appare interessante la verifica certa che i più potenti clan camorristici, dal punto di vista finanziario, abbiano individuato alcuni settori di investimento particolarmente redditizi, quali edilizia, ristoranti, alberghi e bar, scommesse clandestine e gioco d’azzardo, settore tessile, usura, con finanziamenti continuativi e cospicui ad imprenditori toscani, in parte vittime ed in parte complici ed in parte aventi entrambe le connotazioni.
Le vicende criminali, le indagini e gli arresti, la confisca di beni che in Toscana ammontano a 200 e di consistenti rapporti bancari, e che hanno fatto emergere il coinvolgimento della provincia aretina e di alcuni settori imprenditoriali in attività della camorra e della n’drangheta, sono numerose e preoccupanti. Ne ricordiamo tre per tutti. Nel 2006 a Terranuova Bracciolini è avvenuta l’esecuzione di due manovali calabresi, uccisi con un colpo di pistola alla nuca; i killer avevano già preparato la fossa dove sotterrarli e avevano recato con loro la calce per occultarne l’odore, un delitto di n’drangheta che dimostra penetrazione del territorio e bisogno di silenzio, quella volta tuttavia lacerato, sebbene solo per l’inopportuno fiuto di un cane da caccia. Nel settembre 2011 viene arrestato a Napoli Gaetano Cerci, legato a Francesco Bidognetti e a Vincenzo Schiavone, di cui ha favorito la latitanza, due dei capi delle più potenti famiglie della camorra casalese. Ha partecipato fattivamente alla lucrosa attività del traffico illecito di rifiuti tossici dalla Toscana alla Campania, attraverso la società Ecologia 89. E’ considerato “elemento di raccordo” tra la massoneria e la criminalità organizzata casalese. Ha avuto, come visto sopra, rapporti con Licio Gelli e diversi pentiti hanno riferito del coinvolgimento del capo della P2 nei traffici illeciti di rifiuti dal nord verso il sud. Nel maggio dello stesso anno, anche Raffaele Cantone aveva parlato di mafia ad Arezzo. “Ci sono arrivati negli anni ’80 e si sono trovati bene, provincia tranquilla, ideale per operare nell’ombra”. Cantone si riferiva ai lavori per la realizzazione della Direttissima Ferroviaria. E’ stata l’occasione in cui ditte, spesso infiltrate o diretta emanazione di camorra e n’drangheta, si sono insediate in quella fascia di terra che sta a cavallo tra alta velocità ferroviaria e autostrada A1, soprattutto con le imprese per il movimento terra. Sappiamo che non è dato vedere grandi opere in Italia senza la corruzione e i subappalti mafiosi.
Il 20 gennaio 2014, nell’operazione Atlantide, la Guardia di Finanza ha arrestato 6 persone residenti in Valdarno per associazione a delinquere di stampo mafioso. Il capo era Giovanni Potenza, di 62 anni, originario di Villa Literno, da anni residente a Terranuova e già con precedenti per associazione mafiosa. La base operativa dell’organizzazione criminale era collocata tra San Giovanni Valdarno, Terranuova, Montevarchi. Ditte compiacenti, che i finanzieri hanno accertato essere mere “cartiere”, con sede nel modenese e nel casertano, facevano ottenere fatture false per operazioni inesistenti a due società edili valdarnesi, con sede in San Giovanni, la GGF Costruzioni e la PDP Costruzioni. Le false attestazioni di attività venivano utilizzate nelle dichiarazioni reddituali. Le ditte compiacenti hanno fatturato alle due imprese somme per oltre 10 milioni di euro per la somministrazione di manodopera, in realtà mai avvenuta, permettendo così la creazione di costi fittizi da indicare in bilancio. Il 4% dell’utile ottenuto con tali operazioni veniva corrisposto alle casse dei clan dei casalesi. Le due società erano intestate a prestanome, i lavoratori delle aziende sotto costrizione, incensurati in modo da poter ottenere facilmente la certificazione antimafia. Grazie ai vantaggi di natura economica ottenuti tramite le false rappresentazioni in bilancio le due società valdarnesi potevano presentarsi sul mercato con una offerta di prezzi tale da impedire di fatto alle altre società qualsiasi forma di concorrenza, garantendosi l’aggiudicazione di importanti appalti pubblici e privati. Tra questi la ristrutturazione degli Uffizi a Firenze, della villa di Sting a Figline Valdarno, la ristrutturazione dell’edificio dell’ex cinema Gambrinus a Firenze, in vista dell’apertura dell’Hard Rock Cafe, inaugurato con rutilanti festeggiamenti pubblici. Nell’operazione sono stati sequestrati, prevalentemente in Valdarno, beni mobili e immobili per un valore complessivo di circa 11 milioni di euro.
Più defilata, dopo la stagione delle stragi, la presenza della mafia siciliana. Ad Arezzo e provincia furono scoperte importanti operazioni di riciclaggio, alcune delle quali per mano del “cassiere dei corleonesi” Pippo Calò, condannato per i maggiori delitti di mafia. Calò fu imputato, insieme a Gelli, nel processo per l’omicidio a Londra del banchiere Roberto Calvi. Nel 2013 Gelli è stato ascoltato dai Pm di Palermo nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Recentemente, per le vicende della aretina Banca Etruria è comparso Flavio Carboni, pur’egli coinvolto nelle indagini per l’assassinio Calvi, pur’egli figura di quell’intreccio oscuro tra massoneria e mafia.
L’arresto, eseguito qualche mese fa, del comandante del Nucleo Radiomobile di Figline Valdarno per una vicenda di scambi di favori con imprenditori locali, come ad esempio la segnalazione dell’avvio di un’indagine sullo smaltimento illecito, all’interno del proprio agriturismo, di rifiuti d’amianto e dell’imminente controllo a suo carico, in cambio della fornitura di un’alcova discreta per convegni con l’amante, parrebbe più che altro, ferme restando le risultanze definitive delle indagini che spettano agli organi inquirenti, vicenda da volgare commedia all’italiana; tuttavia il rivelarsi di una propensione corruttiva e di una grave irresponsabilità e immaturità istituzionale e civica su cui le mafie prosperano.
Fulvio Turtulici