Pubblicato: lun, 14 Nov , 2022

un latitante in cambio delle riforme del codice penale

Di Messina Denaro, ergastolo ostativo e alleanze mai recise

Salvatore Baiardo in questi giorni sembra aver lanciato una previsione o una proposta. Sul tavolo, ancora una volta il codice penale italiano, come nel famoso papello, le richieste mafiose di abolizione del regime di detenzione 41bis, dell’ergastolo ostativo e dei collaboratori di giustizia.
Il gelataio di Omegna, galoppino dei Graviano, attualmente detenuti in carcere, parla di loro e del latitante Messina Denaro come brave e degne persone cui va la sua stima incondizionata. In passato è stato ascoltato più volte dai magistrati e dalla Dia, ma non è mai stato fugato il dubbio che il suo comportamento sia etero diretto. I fratelli Graviano, i boss che custodiscono i segreti delle stragi del ’92 e ’93, condannati all’ergastolo per le bombe che uccisero Falcone e Borsellino, per gli ordigni esplosi nel 1993 a Roma, Milano e Firenze, oltre che per l’omicidio del sacerdote don Pino Puglisi, sono in carcere dal 1994. Killer spietati al servizio di Totò Riina, avevano aperto una gelateria al Baiardo. E’ lui stesso a raccontare dei fitti rapporti di collaborazione e amicizia con i fratelli, ne ha curato la latitanza, agevolati in trattative e pagamenti, è stato loro intermediario e prestanome. Anche lui si augura che venga presto abrogato l’ergastolo ostativo, perchè i Graviano sono giovani. Il Baiardo invia più di un messaggio, probabilmente c’è qualcuno in ascolto: “C’è anche un nuovo governo e chi lo sa che non arrivi un regalino. E chissà che magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso? E così arrestando lui esca qualcuno che c’ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore…”. Un governo nuovo per modo di dire, al cui interno vi sono i soliti volti, tra cui anche Silvio Berlusconi, un personaggio scivoloso che dagli anni ‘90, erede del divo Andreotti, si conferma figura centrale nelle dinamiche di mafia-politica, pur non essendo mai condannato. Condannato, invece, per concorso esterno in associazione mafiosa è il suo fedele braccio destro, Marcello dell’Utri, che sarebbe stato il trait d’union proprio tra l’imprenditore e le consorterie mafiose. Dalle risultanze investigative risulta che sarebbe stato a conoscenza anche dello spessore delinquenziale di quel Vittorio Mangano, mafioso pluriomicida legato a Cosa Nostra conosciuto con il soprannome de «lo stalliere di Arcore», preso a servizio appunto nella villa di B. per garantirgli la protezione del clan, ma spacciato per un domestico. I Graviano, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo nel processo ndrangheta stragista, avrebbero esplicitato i rapporti economici che il clan avrebbe intrattenuto da molti anni con Silvio Berlusconi, grossi investimenti al nord, anche immobiliari a Milano e in Sardegna. Avrebbero incontrato l’ex Premier, perfino durante la latitanza, in almeno tre occasioni. Inoltre, avrebbero anche riferito di “un imprenditore a Milano che non voleva che le stragi [del ‘92-’93] si fermassero”. Durante la latitanza, i Graviano ebbero modo di soggiornare pure in Sardegna, sembra che avessero affittato una villa, ad appena duecento metri di distanza da quella di B.. Un periodo che non sarebbe stato casuale, perché “erano gli anni clou della nascita del partito di Forza Italia”. I Graviano avrebbero versato a Marcello Dell’Utri e Berlusconi ingenti capitali anche per appoggiare il progetto politico, che era già avviato a partire dal febbraio-marzo del 1992.

Le richieste, dunque, sembrano tornare proprio sulle medesime riforme penali. Già all’epoca di Falcone e Borsellino si voleva impedire il sistema penale speciale pensato per i reati a matrice mafiosa. Ed era chiaro che le due stragi avrebbero portato all’immediata attuazione proprio di quei decreti, tuttavia la strategia dell’epoca sembrò dare priorità all’eliminazione dei magistrati, uccisi sì per mano criminale ma per volere di eminenze politiche.

Curioso che siano serviti trent’anni per dipanare appena qualche frammentato avvenimento. Dal 1992, solo nel 2022 l’Italia ha preso coraggio per scrivere che vi fu la trattativa tra stato e mafia. Lascia molte perplessità pure il secondo grado di giudizio, in cui si conferma l’avvenuta trattativa, con assoluzione delle istituzioni coinvolte, in quanto, secondo i giudici, “agirono per fini solidaristici”. Dalle risultanze investigative, così come dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, emerge che la trattativa non si sia mai conclusa e, anzi, sarebbe tutt’ora in corso sotto molteplici aspetti. Una considerazione resa evidente dall’anomala latitanza trentennale di Messina Denaro, ancora reggente nel trapanese. Una tranquillità che gli sarebbe garantita dai documenti in suo possesso attestanti proprio patti e accordi tra politica a consorterie. Quegli stessi documenti che sembra fossero conservati nella cassaforte di Riina, nella villa mai perquisita al momento dell’arresto. “Chi ha quei documenti è padrone di tanti segreti“, Baiardo lancia l’amo e fa riferimento ad una “data di scadenza” per la cattura di Matteo Messina Denaro, “chi dice che è sparito o morto, fa comodo dirlo. poi al limite che lo si cerca e lo si trova si fa in modo di non trovarlo. E’ la storia che ci insegna, guardi Provenzano, quante volte hanno detto che doveva essere arrestato e non lo hanno mai arrestato. Ci sarà una scadenza anche per questo personaggio, sono cose prestabilite”.

A fine settembre di quest’anno è morto Amedeo Matacena, parlamentare degli anni ‘94 di Forza Italia, condannato in associazione esterna mafiosa, senza aver mai scontato la pena perché trasferitosi negli Emirati Arabi. Le risultanze investigative sembrano convergere su di lui per altri filoni d’inchiesta anche su fatti più recenti, oltre a confermare gli ulteriori interessi della ndrangheta nella gestione dei traghetti tra Sicilia e Calabria, in monopolio esclusivo per volere delle potenti famiglie dei De Stefano, Piromalli e Alvaro – Serraino. Mancavano pochi mesi per l’estinzione della pena per mancata esecuzione e il verosimile rientro del Matacena in Italia.

Sempre quest’anno ritornano sul panorama politico nazionale, altri personaggi già noti alle vicende giudiziarie, in odore di mafia o addirittura condannati. Ma gli italiani non si ricordano o non vogliono pensarci. Eppure, risulta assai difficile non guardare con diffidenza chi si avvicina a queste figure di dubbia moralità, compresi volti famosi del piccolo schermo, traffichini e politicanti che, di fatto, si sono messi a fianco delle consorterie mafiose.

E improvvisamente gli anni ’90 non ci sembrano così lontani, le trattative sono sempre continuate e poco è cambiato. Anche se, a detta dei boss, molte delle aspettative riposte in Berlusconi sono venute meno, a causa proprio del mantenimento del regime carcerario del 41bis e la mancata abolizione dell’ergastolo.

Una legge ideata personalmente da Giovanni Falcone nel 1991: il cosiddetto ergastolo ostativo è una preclusione prevista per tutti i detenuti condannati per fatti di mafia e terrorismo. Se non hanno mai offerto alcuna collaborazione alla giustizia non possono accedere a permessi premio e altri benefici (art58-ter ord. penit). La cosiddetta “libertà vigilata” può essere chiesta da tutti i detenuti che abbiano trascorso almeno 26 anni in carcere. Tutti tranne appunto quelli all’ergastolo ostativo, cioè i condannati per reati di tipo mafioso, per terrorismo ed eversione che non intendono collaborare con la magistratura. Dal carcere non si esce se non attraverso la collaborazione, unica prova effettiva della rescissione del legame con la criminalità organizzata e di un recuperato diritto a rientrare nel consesso umano. La disciplina, contenuta nell’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario (L. n.354 del 26/07/1975; art.15 dL n.306 del 8/06/1992, convertito nella L.356 7/08/1992), introduceva una presunzione di perdurante pericolosità, dovuta alla mancata rescissione del soggetto dai suoi collegamenti con la criminalità organizzata. Negli ultimi anni, la normativa nazionale è stata oggetto di più valutazioni della CEDU, che tuttavia sono orientate al concetto di riabilitazione e rieducazione, non considerando l’effettiva pericolosità del fenomeno mafioso.

Dopo la sentenza della Cedu e quella della stessa Consulta sui permessi premio, la corte è stata chiamata ad esprimersi sul caso di un mafioso che vuole accedere alla libertà vigilata senza collaborare. In udienza è rappresentato da un’avvocata, figlia di un boss della ‘ndrangheta pure detenuto. La difesa si sta, quindi, battendo per far valere il “diritto al silenzio”, ritenendo che deve essere garantito anche nella fase esecutiva, in forza del fatto che il nostro ordinamento garantisce all’imputato la possibilità di non autoaccusarsi. Si allargano le crepe che, con le ultime pronunce, lanciano un segnale diretto nei bracci più blindati dei penitenziari italiani, dove sono reclusi anche gli ultimi uomini delle stragi, dai fratelli Graviano a Leoluca Bagarella e Nitto Santapaola. La Suprema corte ha sollevato eccezione di costituzionalità, sostenendo che con la negazione della libertà condizionale agli ergastolani ostativi si realizza “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento”. Sono 1259 i detenuti al “fine pena mai” che vorrebbero accedere alla libertà condizionale pur non collaborando con la giustizia. Filippo Graviano è stato uno dei primi a chiedere al tribunale di sorveglianza di avere accesso al beneficio previsto dopo la modifica dell’ergastolo ostativo da parte della Consulta, in quel momento presieduta da Marta Cartabia, prima di insediarsi al ministero di Giustizia.

Il 22 ottobre 2022 il governo Meloni presta giuramento al Palazzo del Quirinale e poco dopo emana il suo primo decreto, il d.L n.162 del 31/10/2022. Le nuove regole per l’accesso ai benefici penitenziari così disegnate, ricalcano la precedente proposta Cartabia e prevedono che il detenuto condannato per delitti di contesto mafioso, scontato un periodo minimo fissato dalla legge (almeno 2/3 della pena, 30 anni in caso di ergastolo), possa avanzare la relativa richiesta allegando elementi specifici, elencati nella normativa. La Corte costituzionale ha quindi rinviato alla Cassazione (ordinanza n. 227 del 8/11/2022) gli atti della questione di costituzionalità dell’ergastolo ostativo, dopo il decreto legge approvato dal governo. Le nuove disposizioni incidono immediatamente e direttamente sulle norme oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità.

Negli stessi giorni, il 12 novembre, in una sorta di schizofrenia istituzionale, l’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo è stata intitolata al nome di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La targa apposta all’ingresso dell’aula dove si celebrò il primo maxi processo alla mafia, ha un retrogusto amaro. Nella giornata conclusiva per le commemorazioni del trentennale delle stragi mafiose, hanno disertato il magistrato Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo – moglie di Giovanni Falcone, e Salvatore Borsellino – fratello di Paolo. “Non si può accettare di condividere questo momento con personaggi, inevitabilmente invitati, che non hanno nulla a che fare con i nostri amatissimi indimenticabili giudici, che, dall’alto delle loro responsabilità istituzionali, non tralasciano di mandare alla cittadinanza messaggi di pacifica convivenza con ambienti notoriamente in odore di mafia. C’è chi strizza l’occhio a personaggi condannati per mafia. C’è una Palermo [e un’Italia] che gli va dietro e li sostiene“, il riferimento è ad alcuni esponenti politici condannati per mafia, come Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, che avevano appoggiato il candidato sindaco, poi eletto, Roberto Lagalla; senza dimenticare il neo eletto presidente della Regione Sicilia, Roberto Schifani, e il risorto gruppo della DC. Quel Schifani, uomo di fiducia di Berlusconi, che a detta di molti affiliati e collaboratori di giustizia, sarebbe stato in contatto con Cosa nostra e citato più volte dallo stesso Totò Riina. Nel 2014 fu archiviata l’imputazione a suo carico di concorso esterno a Cosa nostra, nonostante fossero “emerse talune relazioni con personaggi inseriti nell’ambiente mafioso o vicini a detto ambiente nel periodo”. Rapporti esistenti, ma le cui prove per il giudice non erano sufficienti per portarlo in processo, nonostante la caratura criminale dei suoi interlocutori. Il neo governatore della Sicilia è attualmente imputato per violazione di segreto, in uno dei filoni del cosiddetto caso Montante, l’ex numero uno di Confindustria Sicilia, per anni considerato un paladino della legalità e dell’antimafia, poi condannato a 8 anni in appello per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico. Secondo gli inquirenti, avrebbe messo in piedi un vero e proprio sistema di potere, ideato e attuato “grazie a una ramificata rete di relazioni e complicità intessuta con vari personaggi inseriti ai vertici dei vari settori delle istituzioni”. Inoltre, sarebbe stato al centro di una attività di dossieraggio realizzata, anche grazie a complicità eccellenti, attraverso l’accesso alla banca dati delle forze dell’ordine e finalizzata a ricattare, condizionare attività politiche e amministrative e acquisire informazioni su indagini a suo carico. Personaggi, dunque, che non sono stati condannati, ma che risultano offuscati da molte ombre. Secondo Morvillo e Borsellino non hanno mai apertamente preso le distanze, dissociandosi, dall’appoggio che figure, dichiaratamente in odor di mafia o addirittura condannate per mafia, hanno manifestato loro durante la recente campagna elettorale. “Da questi personaggi arriva un messaggio, quello che con la mafia è possibile convivere. Un messaggio devastante che io non accetto e che nessuno dovrebbe accettare“, prosegue Salvatore Borsellino.

Le consorterie mafiose oggi sono mimetizzate nel tessuto sociale ed economico, sempre più infiltrate nelle classi dirigenti e politiche. La mafia ha bisogno del territorio e del consenso popolare, il boss ha bisogno di pubblicità. Per questo, è fondamentale isolare completamente i mafiosi e impedirne l’attività criminosa, considerando che le mafie sono un fenomeno associativo che vive di legami, parentele e gerarchie. Orbene, il sistema penitenziario italiano presenta già numerose falle, un sistema violato in mille modi, il più eclatante forse quello dei fratelli Graviano che da detenuti sono riusciti a mettere incinte le rispettive mogli. I carcerati non solo riescono ad avere contatti con donne e familiari, ma di fatto mantengono il loro dominio sul territorio, inviando ordini e continuando a gestire tutti gli affari del clan. Numerose le testimonianze di comunicazioni tramite cellulari e computer, così come l’utilizzo di droni e nuove tecnologie. I boss lanciano promesse di morte e vendetta, acquisiscono consenso popolare e nuovi seguaci anche condividendo video e messaggi dai loro canali social. Il regime detentivo speciale disciplinato dall’art. 41bis – cd carcere duro – è stato creato apposta per neutralizzare la pericolosità di detenuti che, in virtù dei legami con le associazioni criminali di appartenenza, sono in grado di continuare a delinquere dal carcere. Anche questa misura è stata introdotta nell’ordinamento all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio (d.L n. 306 del 8/6/1992, , conv. in L. 356 7/8/1992), per rispondere all’incapacità della pena detentiva, nella sua ordinaria modalità di esecuzione, di neutralizzare la pericolosità di detenuti che, in virtù dei legami con le associazioni criminali di appartenenza, continuano dal carcere ad esercitare il loro ruolo di comando, impartendo ordini e direttive agli associati in libertà. Il regime detentivo speciale, riducendo drasticamente le occasioni di contatto tra i detenuti e l’esterno e tra gli stessi detenuti, ha dunque come scopo quello di interrompere, o meglio ridurre, i collegamenti con le associazioni. Lo scopo del regime detentivo speciale è del tutto legittimo, essendo la stessa Costituzione e, in modo ancora più esplicito, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ad affermare la sussistenza a carico dello Stato dell’obbligo di adottare misure adeguate per la protezione della collettività dalle condotte dei soggetti di cui sia stata accertata la pericolosità (cfr. CEDU Maiorano c. Italia, 15/12/2009).

E’ evidente che gli istituti del 41bis (carcere duro) e del 4bis (ergastolo ostativo), siano diversi seppur spesso correlati, dettati dall’esigenza di interrompere le attività criminali degli affiliati. La severità delle restrizioni e la durata della loro applicazione, ha aperto degli interrogativi sui limiti entro i quali possano essere compressi i diritti fondamentali della persona. In questi ragionamenti sembra, però, venir meno un valore importante e imprescindibile: l’autodeterminazione di ciascun uomo, cui dovrebbe corrispondere anche la responsabilità delle proprie azioni. In primis, nella sua scelta di attuare i comportamenti criminosi. E, successivamente, sempre sua la scelta di potersi dissociare dalla consorteria mafiosa e collaborare con la giustizia. Certo, una scelta imposta dalle circostanze di essere stato catturato e fermato nelle sue condotte criminali. I detenuti hanno un debito con i parenti delle vittime, con la collettività e con lo stato. Un debito morale prima che economico. Permane il dubbio che certi soggetti proseguano i piani delinquenziali utilizzando il lasciapassare della collaborazione. Le perplessità si acuiscono nel caso in cui chi decide di mantenere il vincolo mafioso, conservando segreti e onore, chiede anche i benefici che lo liberano dalla detenzione. Scenari distopici sempre più vicini. Eppure, nel contesto nazionale attuale, appare evidente quanto sia fondamentale isolare definitivamente boss e gregari, confinarli, esiliarli, disarticolarli, recidendo nel concreto tutti i loro legami con la società. Inviandoli anche in Antartide, se necessario. Se da una parte ci sono i Mutolo, Bonaventura e Panzuto che collaborano con la giustizia, dall’altra ci sono centinaia e centinaia di affiliati che non hanno nessuno scrupolo nè rimorso. Ladri, farabutti, assassini; individui della peggior risma, anche in giacca e cravatta. Non possono che ridere e beffarsi di questo nobile eccesso di zelo, mentre i pochi uomini giusti della nostra nazione vengono abbandonati. Prima del mafioso, sarebbe opportuno soccorrere la collettività, schierarsi per una volta dalla parte degli integerrimi e degli onesti, tutelare la popolazione. Per esempio, garantendo il diritto ad avere servizi ed infrastrutture, scuole ed ospedali, cultura, progresso, trasporti efficienti, bus treni e aerei. Perfino nella tanto dimenticata quanto bella Calabria. Ma la cura e il benessere dell’Italia sono impediti dall’arraffare famelico delle mafie, da interessi e affari più grandi. Per questo il lavoro dei pm, primi fra tutti Nicola Gratteri, Nino di Matteo, Giuseppe Lombardo e Sebastiano Ardita, ci sembra ancora più immenso. Armati solo di coraggio, proseguono una lotta tanto impari contro le consorterie mafiose e le istituzioni ad esse alleate. In un’intervista del 1990, riguardo al rapporto politica e mafia, Giovanni Falcone spiegava: “i pentiti di cosa nostra non diranno mai niente saccio, ma il contrario. loro sempre diranno che di queste cose non parlano perchè non credono che lo stato sia in condizione di sapere gestire ciò che andrebbero a rivelare”.

 

 

 

 

[dati integrati dalle relazioni del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia; processo sulle stragi di Capaci e via d’Amelio; processo ndrangheta stragista; processo trattativa mafia-stato; processo mandanti delle stragi; inchieste di Sigfrido Ranucci; inchieste di Marco Travaglio, Peter Gomez e Marco Lillo; interviste di Enzo Biagi, Michele Santoro, Massimo Giletti; testimonianze di Salvatore Borsellino e Agende Rosse; documentazione e interviste a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; interviste a Nicola Gratteri e Antonio Nicaso]

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