Pubblicato: gio, 5 Dic , 2013

Stato-mafia, il pentito Messina: «Il 17 luglio Borsellino mi disse che era arrivata la sua ora»

Ricordando il suo passato da boss mafioso, racconta: «La notte in cui fu ucciso il giudice Falcone, i detenuti brindarono»

 

393787_439979566040900_1921900797_nIl 17 luglio 1992, cioè appena 48 ore prima della strage di via D’Amelio, il giudice Paolo Borsellino, alla fine dell’interrogatorio, salutò il pentito Leonardo Messina dicendogli che non si sarebbero più rivisti, perché lo avrebbero ucciso. A rivelarlo in aula è lo stesso collaboratore di giustizia, durante l’udienza del processo per la trattativa tra Stato e mafia, ripreso questa mattina dall’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo. «Il dottor Borsellino mi fece diversi interrogatori. Ma non solo. Veniva lì per salutare. Una volta – racconta Messina, ex boss di San Cataldo, paese del nisseno – mi portò persino i cannoli, perché sapeva che c’erano le mie bambine. Era disponibile, perché la situazione che vivevo era precaria, cercava di parlare. Aveva il mestiere dentro. Quel giorno era molto nervoso, fumava una sigaretta dietro l’altra. Eravamo appoggiati alla finestra, ci siamo salutati, lui lo sapeva che doveva morire. Disse che non ci saremmo rivisti più e prima di andare via mi disse: “È arrivata la mia ora. Non c’è più tempo”. E non l’ho più visto». Soltanto due giorni dopo, domenica 19 luglio, il giudice Borsellino e i cinque agenti della scorta furono uccisi dall’autobomba fatta esplodere in via D’Amelio.

Durante gli interrogatori, Borsellino parlava poco. Ma una frase rimase impressa nella mente del pentito Messina, che ricorda come il giudice poteva stare ad ascoltarlo per ore: «Una volta mi disse: “A noi serve solo la verità, non le congetture o i pensieri”. E così ho iniziato a collaborare». La collaborazione è iniziata ufficialmente a partire dal 26 giugno 1992. «Le parole della moglie di uno della scorta mi hanno fatto riflettere [si riferisce a Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, morto nell’attentato di Capaci, ndr]».

«Le parole di quella donna hanno toccato nel profondo un uomo già combattuto tra il continuare ad uccidere o cambiare vita. Già all’epoca vivevo da tempo un profondo travaglio interiore. Ho vissuto il trapasso tra la vecchia Cosa nostra e quella voluta dai corleonesi. Ho assistito al cambiamento e alla distruzione di Cosa nostra. Non c’era ordine ma solo paura, una guerra fratricida». Narduzzu Messina, uomo di fiducia di Piddu Madonia, per il quale gestì a lungo gli affari che giravano intorno agli appalti del centro Sicilia, spiega: «avevo visto morire numerosi amici sotto la scure implacabile della mafia, tra questi anche Borino Miccichè, esponente di spicco della Stidda ennese. Tuttavia fu un episodio in particolare ad accelerare in lui il rifiuto verso tutto ciò che fino a poco tempo prima considerava come la propria “famiglia”: «La notte in cui fu ucciso il giudice Falcone, in carcere a Brindisi [Messina fu arrestato a Como nell’aprile del ‘92 per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di armi, ndr] gli altri detenuti avevano le bottiglie di vino, brindavano per la sua morte. Mentre in me era crescente la repulsione. […] Decisi allora di collaborare e mandai a chiamare il dottor Borsellino».

Durante la sua deposizione, Messina, rispondendo alle domande del pm Di Matteo, ha ricordato come sei anni prima della strage di Capaci, l’allora boss Giovanni Brusca, oggi pentito, disse che «sarebbe stato un errore uccidere il giudice Giovanni Falcone, perché altrimenti ne avrebbero fatto un eroe. Disse che non era quello il momento giusto e che dovevamo lasciarlo stare e non farne un martire. Tutto sarebbe andato per il verso giusto, perché tanto il maxiprocesso sarebbe finito bene in Cassazione».

«Il processo, ci dicevano, sarebbe finito in una bolla di sapone e per i mafiosi non ci sarebbero stati ergastoli, ma solo lievi condanne. Al massimo 4-5 anni di galera». Le cose, come sappiamo, andarono diversamente e così, stando sempre a quanto riferito oggi in aula dal pentito, all’inizio del ‘92 ci fu una riunione a Enna della Commissione interprovinciale di Cosa nostra, in cui venne deliberata l’uccisione di Giovanni Falcone e del pentito Gaspare Mutolo.

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