Pubblicato: mar, 27 Mag , 2014

Mutolo su Ayala: «Una figura ambigua. Tra droga, favori e gioco»

 Borsellino Quater, il pentito Gaspare Mutolo accusa il pubblico ministero Ayala «figura ambigua, mi dissero che qualcuno gli portava la cocaina». Rivelazioni choc anche da parte di Pietro Romeo: Spatuzza avrebbe detto a Giuliano che gli attentati del 1993 furono fatti per fare un favore a Berlusconi

 

ayala-giuseppe«Prima del maxiprocesso, mandai a dire a Riina che potevo intercedere per Signorino e sicuramente anche per l’altro pm Ayala. Lui mi disse “fatti il carcerateddu e poi fuori ci pensiamo noi”. Al momento dell’imputazione, a me mi spara 25 anni e al mio capo mandamento, Giacomo Giuseppe Gambino, con 50 omicidi sulla coscienza, hanno chiesto solo 10 anni. Questo lo vedo come un favore che Ayala ha fatto a Gambino». Così Gaspare Mutolo, deponendo questa mattina al processo Borsellino Quater, che si celebra davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta, in trasferta presso l’aula bunker del carcere romano di Rebibbia.

Le dichiarazioni di Mutolo riguardo ad Ayala, per la prima volta rese in aula, si vanno ad aggiungere a quelle di un altro “pentito” eccellente: Giovanni Brusca. L’ex boss di San Giuseppe Jato ne aveva infatti già parlato in un verbale, raccontando di come «all’interno di Cosa Nostra girasse voce che il giudice Ayala fosse vicino ad ambienti mafiosi». Anche lo stesso Mutolo, ma nel corso di un’intervista lasciata l’anno scorso ad Antimafia Duemila e poi altre volte in contesti ben diversi da un’aula di tribunale, aveva accusato l’ex sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi. Accuse che oggi ha riconfermato, ma che, pronunciate in udienza pubblica, assumono un peso chiaramente diverso. E così, dopo il giudice Corrado “ammazzasentenze” Carnevale e il pubblico ministero del maxiprocesso Domenico Signorino, vendutosi alla mafia per pagare i debiti di gioco e suicidatosi dopo le rivelazioni di Mutolo, ecco il nome dell’altro pm che ha preso parte a quello storico dibattimento. È proprio Ayala, «il magistrato buttatosi in politica, anche lui col vizio del gioco d’azzardo e della droga» a cui ha sempre fatto riferimento l’ex autista e braccio destro di Totò Riina. «Queste cose le dissi anche al giudice Natoli. – ha aggiunto – Gli raccontai di questo episodio e lui tempo dopo mi spiegò che Ayala si giustificò dicendo di aver scambiato u’ tignusu (Giacomo Giuseppe Gambino, ndr) per un altro Gambino della Guadagna, che era comunque a processo. A Natoli avevo detto di questo fatto di Ayala, ma non insistetti anche perché ormai era entrato in politica, quindi non poteva fare danno e quindi non mi interessava più. Altrimenti anche per lui ci sarebbero stati problemi. Per me restava comunque una figura ambigua. Seppi da amici miei e da un certo Enzo Sutera, mafioso della famiglia di Partanna Mondello, che c’era chi gli portava la cocaina. Si diceva pure che avesse il vizio del gioco d’azzardo».

Con i giudici Gioacchino Natoli e Guido Lo Forte, Mutolo parlava «dalla mattina alla sera». Era ormai di casa negli uffici della Dia, in via Carlo Fea, a Roma. Durante quei primi colloqui, l’allora neo collaboratore di giustizia fece sin da subito i nomi di «numerosi personaggi di Palermo appartenenti alle istituzioni» e non esclude che tra quei nomi fatti già tempo prima al giudice Borsellino, ci fosse anche quello di Ayala. «Non mi ricordo. Certo non lo posso affermare, anche perché parlai di diversi giudici. Se ho fatto certi nomi era per far capire quella che era la situazione del Tribunale di Palermo. Io mi fidavo di Borsellino, perché sapevo che certi nomi sarebbero rimasti in quel momento segreti. Temevo per me e la mia famiglia. Non ci potevamo permettere che certe cose arrivassero a certe figure».

«Dopo le stragi c’era l’urgenza di arrestare la violenza dei corleonesi. Per combattere la mafia era una lotta senza quartiere. Io cercavo collaboratori. Ho aiutato diversi mafiosi a pentirsi. Penso ai miei colloqui con Cancemi e Di Matteo. Ma parlavo anche con altri. Alla Dia lo sapevano che mi vedevo con queste persone. Informavo De Gennaro e Gratteri. Sono professionisti, qualcuno di loro è anche andato in galera come il professore Barbaccia (l’ex deputato della Dc per anni medico dell’Ucciardone, ndr.)».

Rispondendo ancora alle domande dei pm, Mutolo ha ripercorso l’ormai noto incontro con Paolo Borsellino, il primo luglio 1992. Un incontro «ostacolato e tormentato», che sarebbe dovuto essere segreto, ma che di fatto non lo fu. «Borsellino venne con il giudice Aliquò. Io misi subito le cose in chiaro: dovevamo fermare i corleonesi, fermare la potenza militare che avevano. Poi ci saremmo occupati di altro e gli feci i nomi di Signorino e Contrada. Questo scambio di parole non fu verbalizzato, perché era stato in un momento in cui ci eravamo appartati. Quando iniziamo a verbalizzare ad un certo punto arriva una telefonata dal Ministero e Borsellino mi dice: “Vado dal ministro”». Quanto il giudice ritorna per continuare il colloquio con Mutolo, è talmente scosso da non essersi reso conto di stare fumando due sigarette contemporaneamente. «Era preoccupato perché aveva incontrato Parisi e Contrada e mi disse che già sapevano del nostro incontro. Anzi mi portò addirittura i saluti di Contrada, che si era messo a disposizione nei miei confronti, dicendogli: “Per qualsiasi cosa avesse di bisogno, Mutolo può parlare con me”. Per lui fu un vero choc».

Per non parlare di quando ascoltò la durissima reazione del giudice ucciso in via D’Amelio in merito alla cosiddetta dissociazione. «La prima volta che sentii questo termine, fu dal dottor Borsellino non nel primo interrogatorio ma in quelli avvenuti pochi giorni prima di morire. Io ero distante, ma lo ascoltai discutere con altre persone. E lui gridando, disgustato, diceva: “Ma sono pazzi?”. Lui non era d’accordo con questa dissociazione. Se ne parlava perché c’erano boss che volevano ripudiare la camorra e la mafia senza dover dire nulla sui fatti, sulle famiglie».

All’esame di Mutolo, è seguito quello di Agostino Trombetta, anche lui oggi collaboratore di giustizia, ma un tempo favoreggiatore dei boss di Brancaccio. Le dichiarazioni di Trombetta confermano il racconto fatto da Gaspare Spatuzza (di cui Trombetta amministrò per un certo periodo la latitanza) intorno al reperimento della 126 che doveva servire per la strage e in particolare sul ruolo svolto da Maurizio Costa, il cui nome è stato inserito nel registro degli indagati dalla Procura di Caltanissetta nel gennaio 2012, con l’accusa di false dichiarazioni al pubblico ministero. Spatuzza sostiene che Costa non sapesse a cosa dovesse servire l’auto, spiegando che era comunque «a disposizione del clan di Brancaccio per sistemare le auto rubate». Di questa “disponibilità” ne ha parlato anche Trombetta in aula: «Se c’era bisogno di un luogo per dormire per la latitanza di Gaspare Spatuzza, Maurizio era a disposizione». E poi ha aggiunto: «Costa smontava le auto al magazzino di Spatuzza. In genere si portavano lì le auto rubate. Una volta ricordo che lo vidi arrivare dalla stradina che porta al magazzino. Lo stavo cercando da un po’ e lui mi disse che lo aveva mandato a chiamare Gaspare, che gli aveva dato centomila lire, di non dire niente a nessuno. Che quei soldi servivano per sistemare un fanale e le pastiglie dei freni. Mi raccontò anche che stava entrando in macchina, ma che Spatuzza lo fermò praticamene e poi gli diede quei soldi. Mi rimase in testa, perché era strano che Gaspare non mi diceva niente. Così come strano era che lui pagava centomila lire. In genere ero io a pagare i soldi per i pezzi di ricambio. Anche io vidi quella macchina molto vecchia al magazzino e quando chiesi a Gaspare cosa dovevamo farci mi disse che era da sistemare per la sorella».

Riguardo alle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino che portarono al depistaggio sull’eccidio, Trombetta ha ricordato un dialogo avuto in auto con Spatuzza tra il 1994 e 1995: «Mi disse che era un pezzo di merda, perché diceva cazzate e stava rovinando tutti. Già si sapeva che collaborava con la giustizia e che parlava della Fiat 126. Non ne parlai prima perché non diedi peso a questa dichiarazione. Per me Spatuzza mi diceva soltanto che Scarantino diceva fesserie. Poi nel 2009 ho ricollegato».

L’ultimo teste ad essere ascoltato, è stato Pietro Romeo, ex rapinatore di tir appartenente al gruppo di fuoco della famiglia di Brancaccio, già condannato per la strage di via dei Georgofili. Romeo, che comincia a collaborare con la giustizia lo stesso giorno in cui viene arrestato nel novembre del ’95, ha raccontato le motivazioni che portarono alle stragi. Di quelle motivazioni – abrogare il 41 bis e compiere un favore ad un politico – ne parlò in due occasioni con Francesco Giuliano (altro killer al soldo dei Graviano, soprannominato “Olivetti”), e in una di quelle era presente anche Spatuzza. «Giuliano mi raccontava che c’era un politico che ci diceva che si dovevano mettere le bombe. Io prima avevo sempre saputo da Francesco Giuliano di un politico, ma non sapevo chi era. Poi un giorno eravamo io, Francesco Giuliano e Gaspare Spatuzza. Giuliano commentava gli attentati e chiese a Spatuzza “Perché li abbiamo fatti, per chi, per Andreotti o Berlusconi?” e Spatuzza rispose: “Per Berlusconi”».

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