Mosca lancia accuse gravissime contro la Turchia e direttamente ad Erdogan.
Sempre più improduttiva e disunita la risposta al terrorismo, indebolita da rivalità e oscure ombre.
Non possiamo dire se siano vere o false le accuse rivolte dai vertici della Difesa russa: non solo la Turchia fa affari con l’Is, come viene sostenuto da più parti, ma sarebbe direttamente la famiglia Erdogan a trafficare il petrolio estratto dai pozzi sotto il controllo del Califfato. Un gravissimo addebito alla legittimità dei comportamenti del governo turco formulato in una conferenza stampa tenuta a Mosca.
Per onore di cronaca va annotato che tale denuncia arriva in seguito all’abbattimento dell’aereo militare russo in Siria per mezzo di un missile lanciatogli contro dall’aviazione di Ankara. La spiegazione del fatto, da parte di Mosca, indica nella volontà turca di nascondere i traffici con l’Is la ragione dell’attacco, mentre Ankara afferma che l’aereo avrebbe sconfinato nei cieli della Turchia.
E tuttavia le affermazioni dei responsabili della Difesa russa confermerebbero le ipotesi di numerosi analisti internazionali. “Il principale consumatore del petrolio rubato a Siria ed Iraq è la Turchia”, ha affermato il viceministro della Difesa Anatoly Antonov. “La coalizione internazionale a guida Usa non conduce raid aerei contro le autocisterne e le infrastrutture dell’Is in Siria per la produzione e il commercio del petrolio”, ha rincarato il vicecapo di Stato maggiore Sergei Rudskoi.
E infine l’affondo più duro: sarebbe direttamente la famiglia del presidente turco coinvolta nei traffici coi jihadisti. “In Occidente nessuno pone domande sul fatto che il figlio del presidente turco è a capo della più grande compagnia energetica, o che il genero è stato nominato ministro dell’Energia”. Il Pentagono americano definisce “assurde” le imputazioni avanzate da Mosca. “Rifiutiamo categoricamente l’idea che la Turchia stia lavorando con l’Is. E’ totalmente assurdo. La Turchia partecipa attivamente ai raid della coalizione contro i jihadisti”. Peccato sia noto ai più che i suoi aerei, quando decollano, preferiscano andare a colpire le postazioni curde. E dovrebbe certo inquietare, soprattutto coloro che pensano di fare entrare questo Paese sempre più vicino al regime in Europa, il fatto che la frontiera più adatta nella regione e, con notevole probabilità, penetrabile per il contrabbando jihadista, sia quella turca e, guarda caso, ai vertici della politica energetica di Ankara siedano famigliari di Erdogan, un uomo con scarsa vocazione alla democrazia e che vive come un sultano, a dimostrazione della sua personalità, in un palazzo faraonico di 1200 stanze in stile neo-ottomano, 70 ascensori e vetrate del valore di oltre 250 milioni di euro, protetto da 1.150 agenti. Il palazzo presidenziale è stato fatto costruire in una zona verde preservata nella Foresta Ataturk di Ankara e la sua sicurezza comporta spese folli: secondo i media l’area è assicurata con 3mila telecamere e l’intero sistema di protezione sarebbe costato circa 20 milioni di euro.
Ma i russi adducono prove di quello che dicono, anche mediante documentazione fotografica. Dalle tre vie individuate dalla Difesa russa, lungo le quali verrebbe convogliato verso la Turchia il petrolio rubato, passano 200 mila barili al giorno, un quantitativo dal quale i jihadisti ricavano 2 miliardi di dollari l’anno. “Difficile non accorgersene”, hanno sottolineato i rappresentanti del ministero moscovita.
Mentre in senso contrario, dalla Turchia alla Siria, transiterebbero le armi per i combattenti della jihad e gli stessi combattenti che affluiscono alle file dei jihadisti. Secondo i russi, solo nell’ultima settimana sarebbero passati “duemila militanti, 120 tonnellate di munizioni e circa 250 mezzi di trasporto”. E’ quello che ha spiegato il capo del Centro nazionale per la gestione della Difesa, Mikhail Mizintsev.
E non è soltanto la Difesa russa che lo afferma. Anche in Turchia i pochi giornalisti che ancora riescono a far sentire la propria voce hanno pubblicato immagini che mostrano il transito di tir carichi di armi al confine turco-siriano. Naturalmente contro di loro è stato emesso ordine di arresto. E così è silenzio. Can Dundar ed Erdem Gul, direttore e caporedattore del quotidiano Cumhiriyet, nell’unico essenziale interrogatorio a cui sono stati sottoposti, si sono sentiti chiedere unicamente il loro numero di telefono personale. Nessun’altra indagine occorreva. Solamente il sasso in bocca.