Pubblicato: dom, 4 Giu , 2023

Marcello Dell’Utri, il potere nell’ombra

Al fianco di Berlusconi da sessant’anni, è uno dei fondatori del partito FI e ne ha gestito l’impero. Le mille vite dell’eminenza grigia che sposta ancora i poteri forti.

Vent’anni fa il boss pentito Salvatore Cancemi faceva per la prima volta il nome di Marcello Dell’Utri come complice della mafia e addirittura delle stragi, poi partirono le indagini e alcuni dei processi che si sono appena conclusi. Eppure, già vent’anni fa prima che parlasse Cancemi si sapeva bene che Dell’Utri ha frequentato diversi mafiosi e uno lo aveva addirittura portato nella villa di Berlusconi, Vittorio Mangano. La politica fece finta di niente, bisognava aspettare le sentenze, ma quando è arrivata quella definitiva nulla è cambiato, neppure davanti all’evidenza messa per iscritto. Lo stesso era accaduto con Andreotti, tutti sapevano che in Sicilia frequentava mafiosi, alcuni come i Ciancimino, Salvo Lima, i cugini Salvo, li aveva direttamente nella sua corrente. Tutti facevano finta di nulla. Il processo iniziò nel 94 quando non era più premier ed era già in declino, la sentenza definitiva, mezza di prescrizione e mezzo di assoluzione, arrivò 10 anni dopo. Sempre troppo tardi. Un po è colpa dei tempi della giustizia italiana ma in parte è colpa di quello che descrisse bene Tommaso Buscetta parlando per la prima volta con Falcone nel 1984 quando gli disse “il nome di Andreotti io non glielo faccio adesso perché Andreotti è troppo potente e l’Italia non è pronta per certe verità, io finirei ammazzato e lei finirebbe in manicomio”. La politica è sempre incompatibile con la verità sulla mafia perché è intrecciata con la mafia e lo stato, come diceva Leonardo Sciascia, non può processare se stesso.

La scena si ripete adesso con la trattativa stato mafia, i fatti sono di decenni  fa, al passaggio fra la prima e la seconda Repubblica. Un tentativo di processo arriva oggi, al passaggio fra la seconda e la Terza Repubblica, quando i protagonisti della trattativa sono ormai sfumati. I pm naturalmente fanno tutto quello che possono, ma per fare i processi ci vogliono le prove e per avere le prove su mafia e politica bisogna che parlino o i mafiosi o i politici. Siccome i politici si attengono fedelmente all’omertà, bisogna aspettare che parlino i mafiosi, qualcuno c’è da Brusca, Spatuzza, Massimo Ciancimino ad altri hanno parlato, ma le sentenze sono sempre arrivate tardi. Anzi, potrebbero addirittura diventare delle “armi di distrazione di massa”, come le chiama Sabina Guzzanti, per farci guardare al passato e non farci vedere quello che succede nel presente. Di fatto, mentre tutti guardavano il processo Andreotti, lo stato trattava con Riina e poi con Provenzano e arrivava il partito di Dell’Utri spacciandosi per il nuovo che avanza. Anche ora sembrano in corso nuove trattative per creare nuovi equilibri fra la mafia e politica della Terza Repubblica.

La mafia odierna non ha bisogno di mettere le bombe, ma non vuol dire che abbia rinunciato a trattare con i politici, usa altri sistemi. Se le consorterie non sparano è tutt’altro che rassicurante, un segno di buona salute perché ricorre alle bombe soltanto quando è in difficoltà. A ogni passaggio di regime cosa nostra cerca i suoi referenti e non è detto che non li abbia già trovati. Come ieri e come l’altro ieri, la mafia ha bisogno di agganci politici, così come la politica ha bisogno di alleanze con la mafia per averne i voti. Servirebbe almeno un cambio di mentalità e comportamento, cominciando a rispondere a una domanda importante: trattare con i mafiosi è giusto o è sbagliato?

Andreotti, che coi mafiosi era in contatti, non si sarebbe mai sognato di dire che era giusto, anche perché con lo scudo della trattativa rifiutata ha lasciato ammazzare Aldo Moro. Oggi, dopo aver negato per anni che la trattativa tra stato e mafia fosse esistita, scopriamo anche i politici del giustificazionismo, quelli  secondo i quali la trattativa c’è stata, ma a fin di bene. A dire il vero, però, la trattativa ha salvato la pelle dei politici che i mafiosi volevano far fuori perché li consideravano traditori, ma in cambio ha fatto ammazzare magistrati e tanti cittadini innocenti, provocando nuove stragi, quella di via D’Amelio, quelle di Roma, Firenze, Milano. Lo stato, trattando, ha fatto capire a Riina che le bombe pagavano, e doveva alzare il tiro se voleva alzare il prezzo. Ma poi davvero la mafia si può combattere trattando con la mafia? E Libero Grassi che si è fatto ammazzare per ribellarsi al racket mafioso? E i commercianti e gli imprenditori che non pagano il pizzo rischiando la pelle da parte della mafia? Se avessero avvertito Falcone e Borsellino che bisognava trattare, anziché combatterla, magari sarebbero ancora vivi. Andreotti disse chiaramente che Ambrosoli si era fatto ammazzare perché se l’era cercata e Dell’Utri ha dichiarato che Vittorio Mangano era un eroe perché non ha parlato, nemmeno andando in carcere.

Marcello Dell’Utri, palermitano, politico ed ex senatore, da sempre al fianco di B, eminenza grigia nella seconda e terza repubblica. Attorno a lui ruotano i grandi poteri e i segreti oscuri del paese. Oggi ancora riverito, corteggiato. Per il suo ottantesimo compleanno gli amici hanno comprato una pagina di giornale per omaggiarlo degli auguri, nonostante la sua comprovata vicinanza ai clan mafiosi. Il suo appoggio muove ancora voti e coalizza i partiti. In amicizia e affari con Berlusconi dai ruggenti anni ’60, un’alleanza che dura da decenni e sembra indissolubile. Dalle risultanze investigative emergono suoi rapporti con cosa nostra e la ndrangheta, con il boss Calderone, con Rapisarda già in contatto stretto con Ciancimino, Alamia e i Cuntrera-Caruana; ma anche con Girolamo Maria Fauci, detto Jimmy Fauci, boss del narcotraffico internazionale tra Italia, Gran Bretagna e Canada. Sembra che parlasse direttamente con Bontate, Riina e poi Provenzano. Attraversa diversi decenni di indagini e inchieste. Nonostante le indagini e le condanne, si avvale dell’immunità politica. Fino alla sentenza per concorso esterno alla mafia. Licio Gelli aveva predetto la condanna definitiva a sette anni e così fu. Dell’Utri irreperibile e poi latitante, viene arrestato a Beirut (in Libano) con due passaporti di cui uno diplomatico (scaduto) e una valigia con decine di migliaia di euro in banconote di piccolo taglio. Viene estradato in Italia e tradotto presso il carcere di Parma. Dopo il periodo detentivo ritorna nuovamente nelle retrovie della politica.

Le sue vicende giudiziarie sono intense, ma ne esce quasi sempre libero. Le inchieste che lo hanno riguardato spaziano dalla tentata estorsione, istigazione alla calunnia pluriaggravata, peculato, frode fiscale, bancarotta fraudolenta, fatture false. Prescritto nella vicenda della P3, archiviato per corruzione e ricettazione. Più recentemente si sono accesi nuovi fari sul processo trattativa stato-mafia, inizialmente condannato e poi assolto, sui processi delle stragi, sui mandanti occulti e ndrangheta stragista, infine un’indagine in corso anche su un’ipotetica estorsione a Berlusconi. Le corti parlano di rapporto sinallagmatico che ha legato l’imprenditore Berlusconi e Cosa nostra con la mediazione costante e attiva di Dell’Utri.

Più di qualche collaboratore di giustizia aveva definito Dell’Utri come una personalità nel mondo di Cosa nostra, della ndrangheta e della massoneria. Agli inizi del Duemila, era emerso dalle risultanze investigative, tra le altre cose, il suo ruolo di protagonista nella compravendita di greggio e trattative per forniture di gas definite “colossali”. Operazioni commerciali che venivano gestite attraverso una società energetica con sede in Svizzera, controllata da un magnate russo, un colosso russo-elvetico dell’energia di cui Dell’Utri aveva un uomo di fiducia al vertice. Ma non solo, a sbrigargli le faccende dal sud America c’era pure un calabrese, emigrato in Venezuela per sfuggire alla giustizia italiana, affiliato al clan Piromalli della ndrangheta di Gioia Tauro. I calabresi da una parte, gli amici russi dall’altra e Marcello Dell’Utri nel magistrale ruolo di trait d’union. Le trattative sarebbero state per la compravendita di petrolio da Sud America a Russia – GazProm e per commercializzare il loro gas. Marcello Dell’Utri che dai calabresi mima lo stile del rimanere silente nelle retrovie. Come si evince dalla sua latitanza in Libano e dell’ex senatore FI Matacena a Dubai. Gli inquirenti in quell’occasione scrivono che “esiste uno Stato parallelo, una sorta di super-associazione dove la ndrangheta si colloca al pari di altri componenti di un sistema politico-economico pantagruelico e deviato”. Un sistema che lega le latitanze di Marcello Dell’Utri e Amedeo Matacena, entrambi condannati in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (Dia, processo Breakfast). Latitanze dorate, protette dai cappucci della massoneria, ma anche operazioni di riciclaggio, coinvolti ministri italiani ed esteri, GazProm Bank, grosse aziende multinazionali e politici libanesi. Marcello dalle mille vite, di cui poco o nulla viene scritto. Una figura apicale, di certo molto lontana dal semplice gregario come spesso viene indicato.

Il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, ha riferito di un incontro, negli anni ’70, tra Bontate e Berlusconi, sottolineando come Dell’Utri fosse stato non solo il tramite, ma anche la garanzia, il lasciapassare per l’imprenditore milanese: “[…] qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Tanino Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza, con scrivania, sedie e mi sembra qualche divano, e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi. (…) Dell’Utri era in giacca e cravatta, Berlusconi con un maglioncino a girocollo e la camicia sotto. Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri”. E poi ancora: “Teresi disse che stava facendo due palazzi a Palermo, Berlusconi rispose che lui stava costruendo una città intera e che amministrativamente non c’è molta differenza: ci ha fatto una specie di lezione economica. Poi sono andati nel discorso di garanzia, che ‘Milano oggi è preoccupante perché succedono un sacco di rapimenti’… Io sapevo che Luciano Leggio, quando era ancora libero, diceva che voleva portarsi tutti i soldi del Nord a Corleone… Stefano Bontate aveva la parola, perché era il capomandamento, io c’ero solo per l’intimità con lui. Berlusconi ha spiegato che aveva dei bambini e non stava tranquillo, per cui avrebbe voluto una garanzia, e qua gli dice: ‘Marcello mi ha detto che lei è una persona che mi può garantire questo e altro’. Allora Stefano Bontate fa il modesto, ma poi lo rassicura: ‘Può stare tranquillo, deve dormire tranquillo, perché lei avrà vicino delle persone che qualsiasi cosa chiede avrà fatto. Poi lei ha Marcello qua vicino, per qualsiasi cosa si rivolge a Marcello…’. Nelle motivazioni dell’ultima sentenza d’appello sulla trattiva stato-mafia (2022), poi rovesciata in Cassazione con assoluzione (aprile 2023), si legge che: “sono emersi elementi tali da far ritenere che, tra il 1993-1994, Dell’Utri abbia effettivamente incontrato personaggi mafiosi (non solo siciliani) per intessere un patto politico-mafioso nel quale si inserivano anche e, anzi, soprattutto, per quanto emerge in questo processo, gli incontri di Vittorio Mangano con Dell’Utri per ricapitargli i desiderata di Cosa Nostra”. E poi ancora, evidenziano i giudici, si è registrata “una convergenza di interessi tale da portare a votare Forza Italia sempre per il tornaconto dell’organizzazione mafiosa secondo un deplorevole accordo politico-mafioso siglato con Dell’Utri”. L’ex senatore di Forza Italia avrebbe portato avanti “quest’opera di mediazione per canalizzare il voto mafioso in previsione di assicurare dei vantaggi all’organizzazione” e lo fece “su input, tra gli altri, di Bernardo Provenzano e Giuseppe Graviano”. Secondo la Corte, dunque, Cosa nostra scelse “di appoggiare il neo costituito partito politico Forza Italia nella convinzione che, grazie al canale con il suo leader Silvio Berlusconi, garantito dai risalenti e ampiamente sperimentati rapporti con Dell’Utri, si sarebbero potuti ottenere i benefici per i quali tutta l’organizzazione mafiosa si era impegnata sin dalla metà del 1992”.

Prima dell’accordo grazie al quale Marcello Dell’Utri sembra godere di un vitalizio mensile da 30mila euro al mese e numerosi altri benefit, Silvio Berlusconi ha elargito milioni di euro alla famiglia dell’ex senatore. Dalle risultanze investigative dell’antiriciclaggio si contano diverse decine di milioni che fluttuano da B. a casa Dell’Utri. Non solo, nel fascicolo dell’inchiesta sulle stragi del 1993 sono stati allegati anche gli atti del processo di Torino scaturito dall’inchiesta su Publitalia e le fatture false con Fininvest. Dell’Utri era il principale imputato. Da quelle carte emergono dazioni di denaro extra ricevute dall’allora manager berlusconiano, principale artefice della nascita di Forza Italia. Berlusconi, sentito come testimone in quel processo contro l’amico, aveva confermato le elargizioni; dal canto suo Dell’Utri aveva dichiarato di aver ricevuto una somma intorno ai 5 miliardi di lire tra contante e valori mobiliari. Per l’antimafia sono regali importanti se contestualizzati al periodo in cui si concretizzano, «storicamente individuabile in quello delle stragi continentali, ma anche della nascita del partito di Forza Italia, dell’impegno politico di Silvio Berlusconi, del concorso di Dell’Utri nella nascita del partito e del suo ruolo nei rapporti tra Berlusconi e persone appartenenti alla mafia siciliana, e nel  gennaio 1994, l’incontro al bar Doney, per arrivare all’arresto dei fratelli Graviano il 27 gennaio 1994». I Graviano sono i mafiosi stragisti attorno ai quali ruota l’inchiesta di Firenze, ai loro rapporti con Berlusconi e Dell’Utri. Secondo il pentito Gaspare Spatuzza, al bar Doney, Giuseppe Graviano gli disse che «avevano il paese nelle mani» grazie all’interlocuzione con Berlusconi e il loro compaesano Dell’Utri. Dalle risultanze investigative emerge anche un altro documento del processo Publitalia: si tratta della causa di lavoro che Dell’Utri ha mosso contro Fininvest nell’ottobre 1994 per demansionamento. Era l’anno d’oro della discesa in politica e della vittoria elettorale, Berlusconi e Dell’Utri erano una cosa sola. Nella conciliazione tra le parti, si riconosce a Dell’Utri un ammontare di tre miliardi e mezzo di lire «quale risarcimento del danno e incentivo all’esodo», somma più alta di quella chiesta nella vertenza. La causa di lavoro serviva a giustificare un’elargizione personale di Berlusconi a Dell’Utri «in modo legale», emerge dalla sentenza di Torino. La conclusione degli inquirenti in una delle informative dell’inchiesta sulle stragi lega quelle dazioni del 1994 al mutato contesto di relazioni con la mafia: «L’appunto sequestrato (sui 3 miliardi e mezzo) è relativo al giugno 1994, la causa del lavoro è del fine ottobre dello stesso anno. Ancora una volta il 1994. Dopo l’arresto dei fratelli Graviano, il quadro dell’anno offre un dinamismo finanziario intenso, volto quasi a impostare nuovi andamenti, scevri dalla necessità di confrontarsi economicamente con una vecchia compagine mafiosa siciliana, verso la quale si era debitori al fine di instaurare affari economici legati al mondo dell’edilizia, ma per proporsi, anche per il tramite di nuovi contatti con la mafia, individuati da Dell’Utri, a cui va riconoscenza, non per consolidare gli affari immobiliari o televisivi, ma per acquistare, questa volta, potere politico». Ipotesi che per ora non trovano conferme: decine di milioni di euro potrebbero essere il riconoscimento voluto da Berlusconi a chi lo ha aiutato a creare il suo impero politico-imprenditoriale, come potrebbero essere il prezzo per pagarne il silenzio. Potrebbero essere la riscossione degli interessi maturati da Cosa nostra, per finanziamenti e favori. Segui i soldi, dunque.

Nel giugno ’92, all’interno di quei 57 giorni che separarono le stragi di Capaci e via d’Amelio, il braccio operativo stragista delle ‘menti raffinatissime’, Totò Riina di fronte agli altri membri della commissione [di cosa nostra] parlava della necessità di uccidere il giudice Paolo Borsellino, citando anche alcuni soggetti da “appoggiare ora e in futuro”, per una strage che “sarebbe stata alla lunga un bene per tutta Cosa nostra”. Tesi confermata da diversi collaboratori di giustizia, tra cui lo stesso Giovanni Brusca, sentito anche dai magistrati di Firenze nell’ambito dell’inchiesta sui mandanti esterni delle stragi del 1993. “Quello che ha dichiarato Salvatore Cancemi in ordine alla finalità delle stragi di portare in ‘sella’ dei politici è la verità. Al contempo credo che abbia fuso due interlocuzioni che invece erano parallele: la trattativa con i Carabinieri e i rapporti con questi politici. Per me ora conoscendo il modo di ragionare di Salvatore Riina, e tenuto conto delle varie risultanze processuali di cui sono venuto a conoscenza nel tempo, è molto chiaro che vi sono state contemporaneamente queste due interlocuzioni”. Tanto Brusca quanto Cancemi erano membri della Cupola di Cosa nostra. Entrambi erano a conoscenza di informazioni importanti rispetto a stragi e trattative che Riina stava portando avanti in quella calda estate. Diversi anni dopo l’inizio della sua collaborazione, il 23 aprile 1998, ai pm di Caltanissetta, Firenze e della Dna, raccontò che Riina nel 1992 gli disse “che aveva nelle mani” alcuni parlamentari e che le stragi erano state operate da Riina con fini politici. Gli disse il Capo dei capi “dobbiamo sfiduciare a quelli che sono in sella e quindi noi poi dobbiamo portare queste persone ai vertici”. Le forze di cosa nostra avevano quindi virato in sostegno di personaggi che già interagivano con Gaetano Cinà, Francesco Di Carlo, capoclan di Altofonte, una cosca che faceva parte del mandamento di San Giuseppe Jato, quello guidato da Brusca; Girolamo Teresi e Stefano Bontate.

Secondo la sentenza della Corte di Appello del 2013, era “incontestabile che, nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontate e durante il dominio di Salvatore Rima, non si è registrata alcuna interruzione dei pagamenti cospicui da parte di Silvio Berlusconi, essendo emerso che l’imputato Dell’Utri (con il Cinà) ha agito in modo che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia, a titolo estorsivo, e ciò fino agli inizi degli anni ‘90.” I giudici rilevano anche che la “cifra notevolmente più aggressiva tanto da divenire artefice, in seguito della stagione stragista della nuova direzione mafiosa, voluta da Salvatore Riina subentrato, sin dai primi anni ottanta a Stefano Bontate nella guida di cosa nostra, non aveva inciso sugli equilibri sanciti tra cosa nostra e Dell‘Utri e Berlusconi con il patto del 1974 che è rimasto del tutto immutato ed è proseguito senza soluzione di continuità fino al 1992”.  Secondo quella sentenza della Corte di Appello, la “…peculiarità del comportamento di Dell’Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di Cosa nostra non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell’intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo e ciò non per t’avvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee all‘area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione, ma per valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all‘associazione mafiosa [o di cui non è nota l’eventuale affiliazione], ha voluto consapevolmente interagire sinergicamente con soggetti acclaratamente mafiosi, rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un’attività di sostegno all‘associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento”. Anche nella sentenza della Cassazione del maggio 2014, che ha reso definitiva la condanna alla pena di anni sette di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stato affermato che “anche nell’ultimo periodo, coincidente con il decennio 1983-1992, Dell’Utri aveva mantenuto il dolo specifico e diretto del concorrente esterno dal momento che aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da Cosa nostra sia l’efficacia causale della sua attività per il mantenimento della stessa associazione criminale in particolare assicurando una protezione alle attività imprenditoriali del Berlusconi”. La condanna irrevocabile a carico di Dell’Utri è limitata ai fatti commessi fino al 1992 e ha riguardato il concorso esterno nell’associazione mafiosa, ovvero un reato che come noto non implica l’adesione al sodalizio e l’affectio societatis. I processi successivi, pertanto, pur essendo una conseguenza storica di quegli anni, risultano slegati da un punto di vista giuridico. Servono le sentenze, servono le prove, servono le dichiarazioni di quei mafiosi che erano presenti, così come servirebbero i politici “pentiti di stato”. Ma anche in quel caso la politica non farà nulla.

In questi ultimi mesi anche Salvatore Baiardo parla dei contatti con Dell’Utri e i fratelli Graviano, sarebbe stato il referente tra i corleonesi e l’imprenditore milanese. Il gelataio di Omegna racconta e poi nega di avere delle foto con il generale Delfino, B. e Graviano seduti assieme sul lago d’Orta. Dalle numerose interviste, seppur contraddittorie, sembra emergere un investimento dei Graviano di oltre 500 milioni di vecchie lire nell’impero di Fininvest e Mediaset. Il boss di Brancaccio aveva riferito in udienza che «la morte del padre, i rapporti di Totuccio Contorno con la procura di Palermo, quelli del gruppo di Bontate con Berlusconi, gli investimenti finanziari di alcuni imprenditori di Palermo a Milano, la strage di via d’Amelio fanno parte di una vicenda collegata». Secondo Graviano i legami di Bontate con il Cavaliere si sono rafforzati con l’entrata in scena di Vittorio Mangano ad Arcore. Riferisce che negli anni ’70 il nonno avrebbe investito ingenti capitali nel gruppo di B. e che gli avrebbe tramandato gli interessi milanesi da curare. Secondo il boss il suo arresto sarebbe stato voluto da B. al fine di non formalizzare per iscritto il finanziamento ricevuto nè di saldare il debito con il clan. Un messaggio evidentemente cifrato, che lascerebbe intendere un conto ancora aperto con Cosa Nostra per accordi del passato, forse le stesse stragi e l’appoggio per l’entrata in politica proprio nel 94.
Baiardo ha anche raccontato di un incontro con Paolo Berlusconi, nel 2011, in cui avrebbe riferito delle foto in suo possesso e quindi di presunte trattative tra il cav e i Graviano, accordi che risalgono a tempi lontani; le loro ville in Sardegna sarebbero state contigue e Marcello Dell’Utri avrebbe chiamato, per conto di B., i fratelli di Brancaccio. Nell’estate del 92 molte cose accaddero, l’assassinio di Falcone e Borsellino. Era appena terminato il VII mandato di Andreotti, già incalzava la II Repubblica. Tra le bombe in continente arrivava anche la discesa in campo del nuovo partito FI.

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