Pubblicato: sab, 28 Giu , 2014

Malvagna: «Fu Riina a dire di rivendicare gli attentati come Falange Armata»

Il collaboratore di giustizia al processo sulla trattativa Stato-mafia: «Ci dissero di votare Forza Italia. Berlusconi sarebbe stato la nostra salvezza»

Immagine 124«Nel dicembre 1991 ci fu una riunione in provincia di Enna tra Salvatore Riina e Nitto Santapaola, in cui bisognava stabilire una strategia di contrasto allo Stato». Lo ha detto deponendo al processo per la trattativa Stato-mafia il collaboratore catanese Filippo Malvagna, che ha sostenuto di aver appreso questi fatti direttamente da suo zio, il boss Giuseppe Pulvirenti, detto “u Malpassotu”. Da un lato il capomafia corleonese e dall’altro il vertice di Cosa nostra catanese, insieme per discutere di atti, non solo di sangue, ma anche dimostrativi e di pressione psicologica per la lanciare la controffensiva della mafia contro le istituzioni. Fu in quel contesto, stando a quanto riferito da Malvagna, che Riina disse: «Bisogna prima fare la guerra, per poi fare la pace». Ed è sempre durante lo stesso ormai noto summit che, per volontà sempre di Riina, si decise che ogni atto sarebbe dovuto essere rivendicato dalla Falange Armata. «Si dovevano fare queste cose – prosegue il teste – per fare confusione e depistare. Fu u zu’ Totò, che era molto arrabbiato perché erano venuti meno degli agganci, a decidere questa nuova strategia. Io non avevo mai sentito nominare la Falange Armata». Ai dubbi di Malvagna, Pulvirenti commentò: «Se Riina dice così, sa quello che fa». È risaputo che è stato il superboss di Corleone a delineare le linee della strategia stragista «con un attacco frontale allo Stato, tipo libanese o colombiano», ma mai prima d’ora qualcuno aveva detto che fosse stato il capo dei capi di Cosa nostra ad ordinare che ogni attentato sarebbe dovuto essere firmato dalla Falange Armata. Sorge il dubbio su chi possa averlo suggerito al mafioso.

La finalità primaria appare invece certa ed era quella, dunque, di «dimostrare di essere capaci di destabilizzare anche la popolazione, confondere l’opinione pubblica facendole credere che era tornato il terrorismo e, quindi, fare perdere la faccia allo Stato». Un progetto sanguinario e devastante, che Cosa nostra non avrebbe certo potuto portare avanti da sola ed è qui che si inserirebbe, appunto, l’inquietante sigla, nonché “uomini cerniera” di estrazione non necessariamente mafiosa, ma appartenenti a massoneria e servizi deviati. Sono gli albori della trattativa. «Questo è solo l’inizio, ancora devono accadere cose più grosse», avrebbe detto Giuseppe Pulvirenti al nipote subito dopo la strage di Capaci. E in effetti la promessa fu mantenuta: 57 giorni dopo venne ucciso il giudice Paolo Borsellino insieme alla sua scorta.

Malvagna ricorda inoltre che poco tempo dopo la strage di via D’Amelio, tra agosto e settembre del 1992, un affiliato della cosca catanese, tale Michele Scorciapino, disse che «c’erano delle istituzioni, dicevano dei servizi segreti, che volevano avere un contatto con Pulvirenti o Santapaola. L’offerta era per Pulvirenti e Santapaola: dovevano consegnarsi e in cambio avrebbero avuto un trattamento di favore, carcere duro alleviato e poi domiciliari». Questa proposta fu “inoltrata” a Riina, ma questi «era assolutamente diffidente e disse di bloccare ogni trattativa con questo soggetto». Il nipote di u Malpassotu ha raccontato anche di altri contatti e precisamente di quando, a fine 1993, mentre era detenuto al carcere catanese Bicocca insieme a Marcello D’Agata (uno dei consiglieri del boss Nitto Santapaola), quest’ultimo gli aveva detto di non preoccuparsi, perché «da lì a un paio d’anni le cose sarebbero andate per il verso giusto» (ovvero attenuazione del 41bis, indebolimento delle leggi sui collaboratori di giustizia e benefici per i carcerati). «D’Agata – ha detto ancora Malvagna in videocollegamento – sosteneva che Forza Italia sarebbe stata la nostra salvezza e che queste notizie gli venivano dagli amici palermitani di Riina, e quindi bisognava votare Berlusconi».

Rispondendo alle domande del pm Roberto Tartaglia, Malvagna ha ricordato di come, all’inizio della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria (cominciata ufficialmente l’11 marzo 1994), parlò di una presunta volontà di Bernardo Provenzano, all’epoca ancora latitante, a collaborare. In particolare, racconta di come, nell’estate del 1992, dopo Capaci e prima di via D’Amelio, mentre si trovava a pranzo in un ristorante sul litorale palermitano insieme ad altri mafiosi, era giunto un maresciallo dei carabinieri. Si trattava di Cosimo Bonaccorso, «messo a stipendio sia dai catanesi, che dagli amici di Palermo», il quale avrebbe consegnato a Malvagna un bigliettino nel quale era scritto che la moglie di Provenzano si sarebbe dovuta incontrare con un alto ufficiale dei carabinieri in un casolare di campagna, in virtù di quella ipotetica collaborazione del boss. Il tempo di fare una fotocopia del messaggio per informare il boss Angelo Romano, che a sua volta avrebbe avvertito subito Giovanni Brusca, che Malvagna lascia il locale per correre subito ad avvisare lo zio a Catania. Ma nella riunione che si svolse poco tempo dopo nel capoluogo etneo, alla presenza di altri esponenti mafiosi del Gotha catanese (tra i quali Salvatore Santapaola, fratello di Nitto, ed Eugenio Galea, vice di Santapaola), «mi dissero: “Questo discorso è come se non è mai esistito, ed io mi sono molto preoccupato. Poi mio cugino mi disse: “Una cosa del genere non potrà mai succedere”. La reazione di tutti fu di sorpresa e di stizza». Sta di fatto che quell’incontro tra la signora Saveria Benedetta Palazzolo e il capitano dei carabinieri rimane ancora oggi avvolto dal mistero, ma è certo che se ci fosse stato, sarebbe un’ulteriore tassello da inserire nello scellerato patto fra mafia e Stato, confermando l’asse di sangue tra Palermo e Catania.

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