Pubblicato: sab, 7 Giu , 2014

Mafia, imprenditore denuncia racket e poi si toglie la vita

Vicenda legata all’operazione “Reset” condotta contro clan Bagheria. Procuratore capo Messineo: «Denuncia da parte di vittime pizzo: novità dirompente»

OPERAZIONE "RESET" CARABINIERINelle vicende scoperte dai carabinieri del Comando provinciale di Palermo che hanno fermato 31 tra boss e gregari della cosca di Bagheria, c’è anche la drammatica storia di un imprenditore edile che ha denunciato il racket e pochi giorni dopo aver parlato con i magistrati si è poi tolto la vita. Si tratta di Giuseppe Sciortino, il costruttore che si è impiccato lo scorso 20 marzo nel suo magazzino a Bagheria, e a ricordarlo è stato il procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Gueci, che, insieme ai sostituti Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli, ha coordinato le indagini: «Sciortino ebbe il coraggio di denunciare i suoi estortori che lo avevano portato alla rovina economica. Poi, sommerso dai debiti, si è suicidato».

Dalle indagini è emerso che l’imprenditore era da parecchio tempo vittima di richieste estorsive per vari lavori che aveva effettuato nel comprensorio bagherese. Sciortino aveva presentato una prima denuncia il 5 luglio del 2013 alla Squadra mobile di Palermo, facendo i nomi di Pietro Giuseppe Flamia, detto “il porco” e cugino del collaboratore di giustizia Sergio Flamia, e Francesco Pretesti, quest’ultimo finito ora in manette a seguito dell’operazione “Reset”. «Il suo gesto estremo – affermano gli investigatori – su cui sono in corso indagini da parte della Compagnia carabinieri di Bagheria, è verosimilmente legato, oltre che alla situazione di difficoltà economica, anche dallo scoramento derivante dalle pressioni continue di Cosa nostra bagherese e alle continue ingerenze criminali nella vita della sua azienda». Il 13 marzo di quest’anno, appena una settimana prima del suo suicidio, Sciortino era stato ascoltato dai carabinieri e dai magistrati della Dda di Palermo, ai quali aveva raccontato di quando, nel 2011, aveva svolto con la sua ditta dei lavori di costruzione di una palazzina a Santa Flavia. Dopo pochi giorni dall’inizio dei lavori – riferiva l’imprenditore – si sono presentati presso la mia abitazione due persone, di cui uno era Pietro Liga di Santa Flavia mentre l’altro lo conosco solo di nome, lo chiamano Salvo o Salvatore ed ha circa 40/45 anni, magro, di statura normale, capelli brizzolati. Pietro Liga e quest’altro soggetto, Salvatore, mi hanno detto che per continuare a svolgere il lavoro della costruzione della palazzina avevo un impegno con loro di ventimila euro. Nell’occasione ho risposto […] che piuttosto che pagare questi ventimila euro avrei abbandonato il cantiere con la mia ditta». E ancora: «Nel 2012 ho svolto un lavoro di costruzione di due palazzine a Villabate in via Giulio Cesare per conto della ditta appaltante Edil Progetto che ha sede a Villabate ed è di proprietà di Nicola Favuzza, Vito Martorana, Damiano Lo Monaco. In questa occasione sono stato avvicinato, ricordo nell’estate del 2012, nel bar La casetta bianca di Casteldaccia, da un soggetto soprannominato da tutti lo “Scintillone”, avente circa quarant’anni. Questo soggetto, che io non conoscevo, mi chiamò per cognome dicendomi che io per lavorare a Villabate dovevo mettermi in regola pagando a lui ventimila euro». Nel maggio 2013 Sciortino aveva cominciato, sempre come ditta subappaltatrice, un lavoro appaltato dalla ditta Noda srl del geometra Mimmo D’Agati. «Questo lavoro – aveva raccontato ai magistrati – riguarda la costruzione di un’altra palazzina sempre in via Giulio Cesare a Villabate. Per questo lavoro si è presentato a luglio, comunque in uno dei mesi estivi, Flamia, dicendomi testualmente: “Lei ha un impegno di quindicimila euro con noialtri per Villabate. Io ho risposto che non avevo impegni con nessuno. Flamia andò via dopo questa risposta. Ero consapevole che si trattava di estorsione e sapevo pure di non avere alcun debito nei suoi confronti. Mi precisò che “c’erano nuove disposizioni” e che qualunque lavoro avrei dovuto realizzare da quel momento in poi, dovevo rivolgermi a lui, specificando che mi avrebbe dato indicazioni sui fornitori, e su tutte le ditte che avrei dovuto contattare nel proseguo dei lavori. Il geometra D’Agati mi aveva già avvertito di non dare ascolto a chiunque si fosse presentato per richieste di questo genere dicendomi che il cantiere era pieno di telecamere e che non dovevo pagare a nessuno. Non ho poi subito nuove richieste estorsive per questo lavoro». Cominciarono però i danneggiamenti ai cantieri e altri atti intimidatori, come i colpi d’arma da fuoco alle saracinesche del suo magazzino.

Poi, lo scorso marzo, il tragico epilogo di questo piccolo imprenditore, conosciuto a Bagheria per la sua dedizione al lavoro ed enorme professionalità, tanto da lasciare sgomenta un’intera cittadina alla notizia della sua morte. Soltanto adesso, però, emergono le motivazioni più profonde di quella decisione. Giuseppe Sciortino non è soltanto l’ennesimo imprenditore che si suicida perché non ce la fa a far fronte alle difficoltà imposte dalla crisi economica. Quel senso di impotenza e di insopportabile pressione derivavano da ben altro, da persone che non sono nemmeno degne di essere chiamate uomini e che lui aveva avuto il coraggio di denunciare. E proprio la scelta delle vittime del pizzo di denunciare i propri estorsori è stata definita dal procuratore capo di Palermo Francesco Messineo «una novità dirompente». «Collaborazioni così intense – ha detto – non sono facili da rinvenire nella storia del territorio. A Palermo si è sempre avuto uno stillicidio. Invece per la prima volta abbiamo 20 imprenditori che nello stesso contesto ammettono di avere subito l’estorsione. Questo è un fatto molto importante. Ci auguriamo che faccia cambiare il quadro».

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