Pubblicato: ven, 12 Mar , 2021

Lockdown e libertà: violare il DPCM non è reato.

Il Tribunale di Reggio Emilia ha disapplicato il DPCM del lockdown. No all’Italia degli sceriffi, la Costituzione è la linea che non bisogna varcare.

 

      Con una sentenza necessaria e attesa da molti giuristi e cittadini, il Tribunale di Reggio Emilia ha dichiarato che non si dà luogo a procedere nei confronti di una coppia che aveva mentito nell’autocertificazione, pur di uscire di casa, durante il lockdown generale un anno fa.
Il giudice, Dario De Luca, ha respinto l’accusa del Pubblico ministero che contestava ad una coppia di aver attestato falsamente nell’autocertificazione di essere uscita per recarsi a sottoporsi ad esami clinici. L’obbligo dell’autocertificazione necessaria per motivare l’ allontanamento dalla propria abitazione era contenuto in via generale nel DPCM dell’8 marzo del 2020. Quelle norme, di rango amministrativo, avrebbero configurato così, secondo l’interpretazione corrente, assunta dalle forze dell’ordine, un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Una limitazione grave per il nostro ordinamento giuridico prevista però solo se si riscontrano ben precisi reati e dopo la condanna emessa al termine di un processo penale. Inoltre, in base alla nostra Costituzione, perfino la custodia cautelare deve essere valutata e disposta dal giudice in base a norme scritte e ben precise e dopo un procedimento che deve seguire delle regole, dunque, tutto è definito e nulla può essere fatto in modo generale o generico.
Insomma, con la libertà personale non si scherza, ci ricorda la sentenza di Reggio Emilia, perchè la nostra Costituzione l’ha blindata nell’articolo 13.  La sentenza di Reggio Emilia lo scrive nero su bianco: un Decreto del Presidente del Consiglio (DPCM) non può disporre alcuna limitazione della libertà personale perchè non ha la forza di una legge ordinaria del Parlamento (atto avente forza di legge), ma è un atto secondario. Non solo, ma la sentenza specifica che neppure una legge (o un decreto legge, che ha la forza di una legge) potrebbe prevedere un obbligo di permanenza a casa in modo generale o generico, verso una intera città o una pluralità generica di cittadini, poichè ogni restrizione può essere solo motivata verso un ben preciso cittadino con motivazioni ben precise per quella persona, con tanto di nome e cognome e motivazione che devono essere indicate e prevista da una legge.
Allora cosa può fare un giudice ordinario contro un DPCM, che è un atto amministrativo, non politico parlamentare? Non può impugnarlo davanti alla Corte Costituzionale, ma lo può. Anche, qualora le restrizioni durante il lockdown (di non poter uscire di casa se non in pochi casi autocertificati) fossero basate non sulla limitazione della propria libertà personale, ma sulla libertà di circolazione (art. 16 Cost), come l’accusa avrebbe tentato di argomentare, ciò non spiegherebbe l’obbligo di permanenza a casa e poi non potrebbe essere invocato, poichè il limite non è entrare in un luogo specifico o passarvi (libertà di circolazione), bensì, qui si configura una vera e propria limitazione alla libertà della persona che si muove. A questo punto, ne consegue che la richiesta stessa della autocertificazione è illegittima, poichè ordinata da un atto che non ne ha il potere. Pertanto,  non è punibile l’aver dichiarato il fatto, poichè il fatto non sussiste giuridicamente, pertanto l’atto è innocuo e non si può riscontrare il reato di “falso ideologico”, contestato in questo caso specifico.
Una sentenza questa di Reggio Emilia del 27 gennaio scorso destinata a far riflettere su tutta la costruzione infondata dei divieti richiesti per far fronte alla pandemia. Poichè una cosa è consigliare per gestire meglio o presumendo di gestire meglio la diffusione del contagio, altro è sanzionare i cittadini e comminare pene contro i valori del patto sociale e costituzionale. Nel nome del popolo sovrano, questo davvero non si può fare, anche se è già stato fatto, ma è illegittimo.

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