Pubblicato: dom, 19 Feb , 2023

Juris Pills: Testimoni e Collaboratori di Giustizia

due istituti decisivi nella lotta alla mafia

L’agire mafioso si manifesta sempre più spesso in forme non violente, con effetti di minore percezione in termini di allarme sociale e di maggiore difficoltà di individuazione. Si declina anche nella promozione di relazioni di scambio e collusione nelle attività commerciali. Dalla corruzione, infatti, la criminalità organizzata ha mutuato il carattere collusivo consensuale, fondato cioè su cointeressenze tra l’attore e il destinatario dell’azione criminale. Nei mercati il potere delle mafie si consolida mediante il sostegno e la collaborazione di imprese, funzionari pubblici, categorie professionali, politici e altri attori con i quali vengono intessute relazioni. È la cosiddetta “area grigia” che comprende spazio e modalità utilizzati dai mafiosi per stringere alleanze e accordi di collusione con gli altri attori a vario titolo presenti, offrendo loro servizi di protezione e di intermediazione, al fine di accumulare ricchezza e acquisire posizioni di potere. Congiuntamente alle intercettazioni, diventa indispensabile il contributo collaborativo offerto dai soggetti informati dei fatti: le fortificazioni della mafia hanno iniziato a sgretolarsi anche grazie alle denunce di chi conosce il sistema mafioso dall’interno, disvelandone dinamiche e attori.

Secondo la legge italiana, un collaboratore di giustizia è un soggetto che, essendo a conoscenza di informazioni relative ad un determinato fenomeno criminale, decide di collaborare con la Magistratura. E’ ricorrente il termine “pentito”, poiché la conoscenza del fenomeno criminale gli è derivata proprio dall’averne preso parte o dall’aver interagito in maniera più o meno diretta con gli attori responsabili dei crimini. La condotta di collaborazione deve esser tenuta nel corso di un procedimento penale, deve presentare carattere di intrinseca attendibilità e deve altresì qualificarsi per novità o completezza o comunque deve apparire di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini o ai fini del giudizio. Il pentito non accede, pertanto, immediatamente ai benefici di legge ma solo dopo che le dichiarazioni vengano valutate come importanti e inedite. La collaborazione consiste nel rendere dichiarazioni etero accusatorie e/o nel consentire il rinvenimento di materiale probatorio, ed è finalizzata a contrastare determinati fenomeni criminosi.

Si distingue, almeno formalmente, dal testimone di giustizia, colui che a titolo di persona offesa da un reato o come persona informata dei fatti, decide di portare il proprio contributo trasmettendo le informazioni di cui è in possesso, che siano rilevanti ai fini di indagine o di giudizio. Si tratta di una definizione aperta, che comprende numerose tipologie di reato. Il confine tra le due figure diventa labile quando il testimone appartiene a quella famosa zona grigia. Nelle maglie dei “testimoni” potrebbero finire anche chi ha pagato la consorteria per affari o averne la protezione e successivamente decide di svincolarsi dalla morsa mafiosa, optando per la denuncia. Vi sono poi i “falsi testimoni”, il doppio gioco e quelli che approfittano del sistema di protezione solo per acquisire uno status, o ancora per beneficiare delle agevolazioni statali. La differenza tra le figure di collaboratore e testimone concretamente si esplica nelle disparità di trattamento nel sistema di protezione, dovute al disvalore che la normativa attribuisce al primo, che è stato membro dell’associazione mafiosa o terroristica e quindi è coinvolto in uno o più reati e che potrebbe collaborare per un suo mero interesse personale (ricevere sconti di pena, protezione dal clan di origine, depistare l’attività investigativa, etc.). Il testimone, invece, potrebbe essere un passante della strada completamente estraneo a qualsiasi vicenda, che in virtù del suo valore civico decide di denunciare quanto ha visto, assumendosi tutti i rischi del caso, senza trarre alcun vantaggio personale. Per compensare questo sacrificio del “buon cittadino” che va incontro a pericoli e difficoltà, lo Stato ha previsto delle condizioni più favorevoli rispetto al collaboratore. Tuttavia, negli anni le vicende giudiziarie raccontano che statisticamente sono più frequenti le situazioni di vicinanza alle consorterie, rispetto a quelle di completa purezza ed estraneità. La storia ci insegna che niente è come sembra e tutto può essere l’incontrario di tutto, così il testimone di giustizia Vincenzo Scarantino, poi rivelatosi un finto testimone, ha depistato le indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino. Mentre il collaboratore Tommaso Buscetta, importante membro di cosa nostra, boss mafioso con una storia criminale, si è poi confermato attendibile e ha dato un grande contributo all’antimafia, arrivando fino alle più alte cariche dello stato, come l’accertamento a carico del divo Andreotti della sua connivenza per fatti di mafia.

La prima normativa sul tema è la L. 15/1980, che introducendo il concetto di “dissociazione”, istituiva la possibilità di applicare degli sconti di pena a individui riconosciuti come terroristi, in cambio di una collaborazione con la giustizia. Un decisivo ulteriore passo avanti fu il dL 8/1991 (convertito dalla legge n. 82/91), pensato da Giovanni Falcone e Antonino Scopelliti. Il testo ha introdotto la possibilità per i pentiti, i testimoni di giustizia e per i loro familiari di fruire di un programma di protezione. Il Servizio Centrale di Protezione (S.C.P.) con sede a Roma, dispone il processo decisionale di ammissione allo speciale programma di protezione e la concreta determinazione e attuazione delle necessarie misure tutorie e assistenziali. Tale apparato normativo è stato poi aggiornato con la legge n. 45/2001 che dispone una maggiore distinzione tra collaboratore e testimone. Viene preservata la possibilità di accesso a riduzioni di pena ed all’assegno di mantenimento erogato dallo Stato ed è introdotto un meccanismo di gradualità delle misure di protezione, prevedendo tre diversi livelli di tutela: 1)le misure ordinarie, alle quali provvede l’Autorità di pubblica sicurezza e, per i detenuti, l’Amministrazione Penitenziaria; 2)le speciali misure di protezione, adottate dalla Commissione Centrale prevista dall’art.10 del decreto legge n. 8/1991; 3)lo speciale programma di protezione, anch’esso di competenza della medesima Commissione. Particolarmente rilevante è la distinzione tra “speciali misure di protezione” e “speciale programma di protezione”, perché soltanto quest’ultimo, e cioè il massimo livello di pericolo e di protezione, prevede la possibilità del trasferimento in luoghi protetti e il cambiamento delle generalità, nonché misure di assistenza economica. Sono disposti dei vincoli tassativi: al collaboratore sono concessi 6 mesi di tempo per condividere le proprie informazioni; i benefici previsti dalla legge verranno concessi solo se le informazioni condivise saranno ritenute rilevanti e inedite; il soggetto dovrà in ogni caso scontare almeno 1/4 della pena prevista per i suoi reati e se si tratta di persona condannata all’ergastolo di almeno dieci anni; per i delitti di associazione mafiosa ex art. 416bis la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà; il servizio di protezione durerà fino alla cessazione del pericolo; viene evidenziata una differenza sostanziale fra i conviventi del pentito, che accedono al programma di protezione, ed altri familiari ed affini, per i quali dovrà essere accertata la presenza di un reale grave pericolo di ritorsioni. Mentre la L. 6/2018, specificatamente formulata per la tutela dei testimoni, prevede che l’individuo che ha deciso di fornire la propria deposizione, mettendo di conseguenza a rischio l’incolumità propria e dei familiari, possa accedere a misure riguardanti la tutela fisica, il sostegno economico, il reinserimento sociale e lavorativo. In totale si contano all’incirca 6mila persone nel sistema di protezione: 1200 collaboratori, che con famiglie e parenti sono circa 4.600; mentre i testimoni sono poche decine, con le famiglie diventano qualche centinaio.

Si crea, dunque, un circuito parallelo gestito dalla Commissione Centrale che dispone se concedere o meno e in quale misura protezione a testimoni e collaboratori, con evidentissimi (e gravissimi) conflitti di interesse della politica stessa, soprattutto quando qualche onorevole potrebbe essere danneggiato da determinate dichiarazioni. Il Nucleo Operativo di Polizia è responsabile sia di testimoni che di collaboratori, gruppi di famiglie di fatto totalmente in balia dei militari e delle scelte della Commissione. Le misure di protezione, infatti, possono essere revocate o modificate con riferimento alla gravità, intensità ed effettività del pericolo al quale sono esposti i collaboratori. Si può, inoltre, procedere a revoca o modifica della misura per motivi disciplinari, con ampi spazi per ricatti o condizionamenti. La revoca, ovviamente, può conseguire anche alla commissione di reati segno del reinserimento del soggetto nel circuito criminale. Vengono poi presi in considerazione quei comportamenti tenuti dal collaboratore che rendono eccessivamente gravoso, ovvero superfluo, il compito del servizio centrale di protezione e infine vanno considerati l’esplicita rinuncia ad avvalersi delle misure di protezione ed il rifiuto di sottoporsi al contraddittorio in sede dibattimentale. Ai testimoni di giustizia viene assicurata un’abitazione, la possibilità di studiare, il reinserimento lavorativo, l’assegno di mantenimento, spese legali, sanitarie. Ai collaboratori è concesso un assegno mensile, assistenza legale e spese mediche, alloggio statale.

Tuttavia, una grossa criticità del sistema di protezione si rileva per entrambi nella mancanza del cambio di generalità definitivo. Viene infatti prevista solo una copertura provvisoria che non ha valore legale. Per lavorare, studiare o accedere a cure mediche il soggetto deve esporsi, usando la vera identità. Lo stato non sembra essere in grado di passare i titoli di studio e lavorativi, come nemmeno la storia clinica, sul nome di copertura provvisorio. Il Servizio centrale di protezione può creare documenti di identità, patenti, tessere sanitarie e codici fiscali, che però non hanno alcuna corrispondenza anagrafica. Al nome falso, insomma, non corrisponde nulla e pertanto non è spendibile in alcun caso. L’iscrizione a scuola, il contratto di locazione, documenti o prenotazioni per visite mediche sono effettuati direttamente dai Nop, facendo così venire meno la segretezza della famiglia e la possibilità di un reinserimento sociale. Questo significa anche impossibilità a lavorare, essere privati di voce, autonomia e di reinserimento, rimanendo totalmente dipendenti dalla Commissione. Scorte e programma di protezione vengono fatti saltare con la velocità di un cambio di camicia, vivere nelle fila dei giusti sembra una prova più ardua del previsto. Il programma fa acqua da tutte le parti: non garantisce sicurezza, alloggi e lavori compatibili con le esigenze di segretezza.  I parenti molto spesso sono estranei agli ambienti criminali, ma sono intrappolati nelle inefficienze di un programma di protezione fermo da circa 20 anni, che indubbiamente necessita di un aggiornamento. Troppe le distorsioni che disincentivano la denuncia e la scelta di onestà. Il malfunzionamento del programma di protezione sembra proprio un regalo che una parte della politica fa alle consorterie mafiose con cui intrattiene rapporti e che fa a se stessa, per evitare che nuovi pentiti possano citare nomi eccellenti come collusi e affiliati. Occorre evitare che rientri nel programma di protezione chi non ne ha motivo e rischia di svilire il sistema stesso, diventando da testimone un “testimonial”. Necessario rendere efficace la denuncia e il sistema di protezione, soprattutto nella sua fase iniziale: una volta che una famiglia viene spostata si dovrebbero creare le condizioni affinché a quel nucleo vengano assegnati nuovi documenti con un reale cambio di generalità legalmente valido, considerando anche la possibilità di estendere il programma in tutta Europa. Carente o quasi inesistente il supporto psicologico, come non pervenuto nemmeno un garante a tutela delle famiglie dei denuncianti, perché anche nelle retrovie sono numerose le vessazioni e le violenze. Un circuito dell’antimafia che mutua il sistema mafioso, tenendo legate a sé migliaia di persone imbavagliate e ricattate dal facile gioco di essere date in pasto ai clan. Dall’inferno di cosa nostra e ndrangheta si passa all’oscurantismo della mafia statale. Testimoni e collaboratori di giustizia italiani sono spesso dimenticati e abbandonati dalle stesse istituzioni; lasciati in un girone opaco di prevaricazioni e abusi. Soggiogati alle bizze di una Commissione, quanto potranno portare avanti le loro scelte di onestà e giustizia? E allora, una riflessione è obbligata: uno stato che si rifiuta di dare documenti e quindi identità ai suoi cittadini, preferendo -è evidente- il silenziamento di chiunque denunci, siamo sicuri che voglia davvero proseguire nel contrasto alla mafia?

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