Pubblicato: lun, 20 Feb , 2023

Juris Pills: beni confiscati alla mafia

I beni confiscati alle mafie potrebbero essere una delle più efficaci forme di lotta alla criminalità organizzata

Le ricchezze accumulate illecitamente dalla criminalità organizzata, per esempio con i soldi del narcotraffico o delle estorsioni, possono essere espropriate per diventare proprietà dello Stato. Lo prevedono alcune leggi statali. La prima, alla base di tutto, è la legge Rognoni-La Torre che ha introdotto il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e la confisca “delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego”. Successivamente, nel 1996 è stata approvata una legge per il riutilizzo dei beni confiscati per scopi sociali. A occuparsi della gestione e della destinazione di questi beni, tra cui immobili e aziende, è l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alle mafie e alla criminalità organizzata (ANBSC).

Confiscare i beni mafiosi ha un duplice significato: il primo e più immediato è quello di bloccare le ricchezze dei clan, in particolare i conti correnti e gli investimenti. Si attenua anche la morsa mafiosa sul territorio, sottraendo per esempio immobili considerati delle roccaforti della mala. Inoltre, la restituzione alla collettività di mobili e immobili, potrebbe in qualche modo ristorare dei danni subiti dalle attività criminali. La legge così pensata è valida e forte, ma la sua applicazione rivela ancora molte problematiche.

Il governo ha nei suoi database fascicoli riguardanti 230.517 beni, secondo i dati aggiornati a giugno del 2022. Le regioni storicamente a più alta concentrazione mafiosa, sud e isole, rimangono prime in classifica, ma percentuali importanti di confische si registrano anche al centro e al nord [ministero della Giustizia, rapporto semestrale al Parlamento].

Il sequestro di un bene avviene laddove il proprietario, indiziato per associazione mafiosa, non ne dimostri l’origine lecita. Con la condanna in secondo grado il bene è confiscato e trasferito all’agenzia preposta, l’ANSBC. Solo a seguito della condanna definitiva è assegnato allo Stato nelle sue diverse articolazioni (dai ministeri alle forze dell’ordine) o agli enti locali, che a loro volte possono farlo gestire ad una realtà del terzo settore. I beni di cui tratta il rapporto ministeriale possono trovarsi a uno stadio diverso di questo lungo iter. Il 39% dei 230.517 beni censiti dal ministero è stato dissequestrato, mentre il 15,3% è ancora in fase preliminare. Le lungaggini processuali e la troppa burocrazia certo non aiutano. Di fatto, a giugno 2022, secondo le stime, sarebbero stati destinati su tutto il paese appena 20mila beni. Tanti, troppi beni confiscati rimangono inutilizzati o, peggio, occupati abusivamente dai vecchi proprietari. Dal sequestro all’uso sociale possono passare più di 10 anni. Il percorso burocratico è lentissimo, gli immobili si deteriorano, le aziende sequestrate rischiano il fallimento. Occorre dunque snellire in questo senso le procedure di confisca e riassegnazione, provvedendovi nell’immediato. Le criticità sono descritte anche nella relazione dell’inchiesta sui beni sequestrati e confiscati, realizzata dalla Commissione Antimafia. Gli amministratori giudiziari dovrebbero seguire il corso dei beni sequestrati, gestendo nel modo migliore anche le aziende loro assegnate. Tuttavia, anche dai recenti fatti di cronaca come la vicenda Saguto e co., si evince come tutti questi numerosi passaggi allentino le maglie della giustizia. Inoltre, dalle risultanze investigative è emerso che i clan riescono quasi sempre a reimpossessarsi dei beni tolti, tramite prestanome o parenti. Le mafie infiltrano anche i magazzini dei sequestri e le gestioni giudiziali, di fatto vanificando il lavoro degli inquirenti. Raramente vengono assegnati ed effettivamente reimpiegati ad uso sociale, come Radio 100 Passi e Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato. Più frequentemente, sono decine di migliaia i beni abbandonati, talvolta in stato ruderale, con la necessità poi di demolirli. Le proprietà che lo Stato strappa alle mafie sono per il 46% immobili: ville, appartamenti, terreni, garage. Ma l’ANSBC gestisce anche beni mobili, come oggetti di valore e vetture; aziende di ogni genere; beni finanziari come contanti o pacchetti azionari.

I problemi che bloccano i vari passaggi burocratici possono essere l’esistenza di quote indivise, irregolarità urbanistiche, occupazioni abusive (i proprietari non se ne sono mai andati oppure hanno chiesto a parenti o amici di occupare l’immobile) o problemi strutturali. Un caso eclatante è Napoli, che conta 10 mila unità solo di alloggi statali occupati abusivamente dalla mafia e mai sgomberate, con un buco nel bilancio del Comune – riguardo all’intero patrimonio immobiliare – di oltre 264 milioni. Per quanto riguarda le aziende, molte sono scatole vuote o società paravento per le quali un percorso di regolarizzazione è impossibile. Secondo il dossier di Libera, la maggior parte di quelle confiscate giunge nella disponibilità dello Stato priva di reali capacità operative; le aziende sono spesso destinate alla liquidazione e alla chiusura, se non si interviene in modo efficace nelle fasi precedenti. Il problema principale per un’azienda confiscata alla criminalità organizzata è paradossalmente la sua conversione alla legalità: il lavoro nero deve essere sostituito da quello regolare, pagando tasse e contributi pregressi, la gestione delle forniture deve essere trasparente. Accordi e prezzi di favore pattuiti con il clan vengono meno nel momento in cui il bene passa allo Stato, con un innalzamento vertiginoso dei costi. L’inquinamento dell’economia e della democrazia per opera mafiosa è qui evidentissimo, con la distorsione spesso frequente secondo cui la gestione del clan porti lavoro, mentre quella statale porti a fallimenti aziendali, chiusure e licenziamenti.

Inoltre, la relazione della Commissione antimafia sottolinea che le banche vedono nelle misure giudiziarie non un passo positivo verso la legalità ma un aumento dei rischi. Il risultato è che le aziende, così come gli immobili a uso abitativo, restano per mesi o anni inutilizzati. E più passa il tempo più hanno poi bisogno di interventi di recupero, o di demolizione, con ulteriori spese da affrontare. Tra i beni sequestrati c’è anche il denaro di conti correnti, titoli azionari, fondi di investimento che confluiscono poi nel FUG, il Fondo unico giustizia, che li utilizza per vari scopi. Spetta al presidente del Consiglio determinare, di anno in anno, come devono essere utilizzati i soldi del Fondo. Secondo l’ultima stima, nel fondo sarebbero confluiti diversi milioni di euro che potrebbero essere reinvestiti immediatamente sul territorio per opere pubbliche, strade, trasporti, servizi e infrastrutture. I fondi, però, sono lasciati in giacenza con grosse perplessità sul loro reale utilizzo. Manca la trasparenza sull’impiego e destinazione d’uso: il rapporto «RimanDati», curato annualmente da Libera, rileva come il 60% dei Comuni non abbia pubblicato l’elenco dei beni confiscati in suo possesso, nonostante la legge lo imponga. E nemmeno ANSBC sembra pubblicare i dati in riferimento ai beni confiscati: il 30% dei beni destinati è irreperibile, cioè non è indicato un indirizzo esatto. Di molti mancano i dati catastali e i beni non ancora destinati sono del tutto anonimi, senza informazioni.

Infine, il sequestro da solo non riesce ad arginare la forza intimidatrice dei clan che impedisce a singoli o associazioni di farsi avanti per eventuali aste o affidamento di gestioni dei beni. Lo spiega bene la realtà di Roma in cui, nonostante si contino migliaia di beni sequestrati, alleggia il potere mafioso, dalle minacce più velate, agli incendi e le stese. Prendere un bene confiscato è un affronto che i clan spesso non perdonano. Gli inquirenti in diverse circostanze hanno rilevato anche le compiacenze delle case d’asta e delle agenzie immobiliari che assegnano in via privilegiata il bene al soggetto raccomandato, escludendo dalla trattativa chiunque non rientri nel placet del clan. Per ovviare a questo ulteriore aspetto, niente affatto irrilevante, occorrerebbe snellire i tempi di sequestro disponendo la riassegnazione immediata, possibilmente in prima battuta a favore di enti statali o privati che siano tutelati in modo robusto, in termini di sicurezza e di fondi economici.

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