Pubblicato: mer, 28 Mag , 2014

Grigoli: «I Graviano c’avevano in mano Dell’Utri»

La Corte si commuove ascoltando gli ultimi momenti di don Pino Puglisi. Pentito Ferrante: «Provammo noi i telecomandi per l’attentato di Borsellino»

image«Ne parlai nel ’94 durante le ore d’aria al carcere Ucciardone con Salvatore Biondo e Salvatore Biondino. Si parlava di un tizio (Pietro Scotto, ndr.) che era stato arrestato e capimmo che le Forze dell’Ordine avevano preso una direzione completamente sbagliata e quindi non sarebbero arrivati a noi». A parlare è Giovanbattista Ferrante, ex soldato della famiglia di San Lorenzo, nel secondo giorno di trasferta per il pool di Caltanissetta presso l’aula bunker di Rebibbia, nell’ambito del processo Borsellino Quater.

Il collaboratore di giustizia, ascoltato in qualità di teste assistito, ha ripercorso i momenti preparatori della strage di via D’Amelio (in cui ha svolto il ruolo di telefonista), fino ai momenti successivi, quando ormai gli inquirenti avevano intrapreso la pista sbagliata, frutto di un depistaggio di Stato. «Scotto aveva raccontato delle cavolate. Si parlava della famosa 126 rubata, e dell’esplosivo si diceva che era in dei fusti di calce. Di queste cose ne parlai subito con l’autorità giudiziaria. Lo dissi alla dottoressa Palma, ma lei mi rispose che la pista della 126 era corretta». Ferrante ha riferito anche di un altro dialogo, questa volta al carcere dell’Asinara. «Mi trovavo con Filippo Graviano e si parlava di Salvatore Vitale. Mi disse che non c’entrava niente con la fase deliberativa della strage, ma poi seppi che abitava proprio dove stava il giudice Borsellino. Allora capii che Filippo Graviano sapeva della strage». Il teste ha quindi raccontato delle simulazioni effettuate per provare i telecomandi che avrebbero dovuto azionare l’autobomba. «Facemmo le prove circa 15 giorni prima dell’attentato. Li provammo in località Case Ferreri, vicino a viale Regione Siciliana, dove c’erano le armi nascoste. Ogni coppia di telecomando era conservata in una busta di plastica e non dovevano essere mischiati uno con l’altro, perché evidentemente avevano, diciamo, delle frequenze diverse. Ad occuparsi della “costruzione materiale” dei telecomandi, era stato Giuseppe Biondo, cugino dei due Salvatore Biondo. Uno di questi telecomandi fu provato facendo esplodere un detonatore dentro una latta tipo ducotone da 20 litri. Eravamo io, Salvatore Biondo e Salvatore Biondino. Allora, però, non sapevo ancora che l’obiettivo era Borsellino».

Rispondendo alle domande dei pm, Ferrante ha ribadito il compito svolto quel tragico 19 luglio 1992, e cioè segnalare l’arrivo in via D’Amelio del corteo delle auto di scorta del giudice telefonando ad un numero di cellulare, scritto su un bigliettino che gli era stato consegnato da Giuseppe Graviano. «Il giorno della strage io mi trovavo a pattugliare via Belgio e dovevo avvisare del passaggio delle auto. Diversi anni dopo, quando eravamo entrambi arrestati, Giuseppe Graviano mi disse che se mi chiedevano della telefonata fatta in via D’Amelio dovevo dire che avevo parlato con una donna. Ma la voce all’altro lato del telefono era quella di un uomo». Dalle successive indagini emerse che il numero apparteneva al boss Fifetto Cannella, e che Ferrante fece quattro telefonate: una dopo la mezzanotte («probabilmente per segnarmi il numero sul cellulare»), due al mattino (alle 7:36 ed alle 9:46), e l’ultima alle 16:52, della durata di sette secondi. Fu questa ad avvisare del passaggio delle vetture. Sei minuti dopo, il boato che squarciò per sempre il cielo di Palermo.

Dopo la deposizione di Ferrante, è seguita quella di Vincenzo Sinacori. L’ex esponente di spicco della cosca di Mazara del Vallo ha ricordato di una riunione fatta nell’autunno del ’91 a Castelvetrano, durante la quale furono decisi gli attentati a Giovanni Falcone, Claudio Martelli e Maurizio Costanzo e che questi sarebbero dovuti avvenire a Roma. «C’erano Totò Riina, Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Mariano Agate e altri. Fu in quel momento che Riina diede l’incarico di partire per Roma e fare questi attentati. Venne creato proprio un gruppo speciale che obbediva solo a Riina. Andammo a Roma portando armi ed esplosivo e iniziammo gli appostamenti. Parteciparono anche i napoletani. Quando capimmo che l’unico fattibile nell’immediato era l’attentato a Costanzo, io tornai in Sicilia e incontrai Riina che mi disse di far rientrare tutti perché ci avrebbero pensato loro. E poi ci fu Capaci». Sulle stragi del 1993 ha aggiunto: «C’era chi si opponeva che venissero fatte in Sicilia. Come Provenzano, Raffaele Ganci e Brusca. Avevano paura che il cerchio si potesse stringere troppo e così andammo in continente». Anche Sinacori ha parlato del falso pentito Scarantino: «Tutti sapevamo che non era uomo d’onore. Da una parte si diceva che poteva essere un bene che parlasse, perché così screditava i pentiti. Ma ce ne sono stati tanti così. Per esempio c’era un certo Scamuzzo che diceva che io mi chiamavo Aladino, o poi ancora un altro di Castelvetrano, Calcara, che si autoaccusava dell’omicidio Lipari quando l’omicidio Lipari l’ho fatto io con altri».

È stata quindi la volta dei collaboratori Giovanni Drago e Salvatore Grigoli. Entrambe le deposizioni hanno sostanzialmente confermato quanto già dichiarato da Gaspare Spatuzza. Ma se il primo – appartenente al gruppo di fuoco dei Graviano – si è soffermato sulle dinamiche interne alla famiglia di Brancaccio, raccontando anche di quando gestì la latitanza del più piccolo dei due fratelli capimafia; il secondo si è soffermato sui contatti che i due boss strinsero con Marcello Dell’Utri, riferendo in particolare di quando, tra il ’93 e il ’94, Nino Mangano (reggente della famiglia di Roccella) gli rivelò che «i Graviano c’hanno in mano a sto Dell’Utri. Ne hanno padronanza». «All’epoca quel nome non mi diceva nulla, ma oggi mi dice qualcosa». Nome che emerse tra i mafiosi di Brancaccio anche in riferimento ad un’altra vicenda. «Mi ricordo che all’epoca – ha affermato Grigoli – si parlava tra di noi di un ragazzino che giocava bene a pallone, un certo D’Agostino. Venni a sapere che i Graviano, e lo stesso padre del ragazzino, Giuseppe D’Agostino, si interessarono per farlo giocare nel Milan, e così, in quest’altra occasione, venne fuori ancora una volta il nome di Dell’Utri». Mangano gli rivelò anche che «le stragi erano state fatte per costringere lo Stato a scendere a patti». In aula Grigoli ha parlato di una serie di contatti tra la mafia e lo Stato, nel tentativo di limitare il 41 bis e ottenere altre richieste. Le autobombe di Roma, Firenze e Milano dovevano servire proprio a far cedere lo Stato. «Non so però chi fossero gli intermediari, né chi decidesse gli obiettivi delle stragi. Sicuramente percepivo che Cosa Nostra aveva contatti con settori di vario tipo». Alla domanda se avesse mai sentito parlare della Falange Armata, Grigoli ha risposto: «Sì. Fu Francesco Giuliano a rivendicare a nome della Falange Armata le stragi. L’indicazione veniva da Giuseppe Graviano, ma non so di più».

Sul finire della deposizione, è grande commozione in aula quando Grigoli rievoca l’omicidio del Beato padre Pino Puglisi. «Ho ucciso un santo. – racconta in lacrime Grigoli Ricordo perfettamente l’attimo prima di sparare. Lui mi guardò sorridendo e mi disse: “Me l’aspettavo”. Non posso mai scordarlo e chissà che anche lui ci ha messo una mano per farmi essere oggi qui a parlare. Seppi solo dopo che lo uccisi nel giorno del compleanno».

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