Pubblicato: ven, 6 Set , 2013

Celebrata a Palermo la Giornata del reinserimento

Soluzioni alternative al carcere, pene commisurate al reato e amnistia: queste le proposte del Garante, appoggiate dai Radicali

 

di Matilde Geraci 

Camera - mozione di sfiducia al Ministro dell'agricoltura RomanoSi è celebrata oggi a Palermo la “Giornata del reinserimento”, una manifestazione organizzata dal Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia, il senatore Salvo Fleres, in modo da favorire un dibattito aperto fra i vari esponenti del mondo sindacale, imprenditoriale, del volontariato, delle amministrazioni regionale, penitenziaria e della Giustizia, sulla spinosa questione delle carceri. Un settore delicatissimo, ancor più in Sicilia: terza regione d’Italia, dopo Lombardia e Campania, per sovraffollamento dei propri istituti penitenziari (tra i casi più emblematici quello di piazza Lanza a Catania).
A maggio di quest’anno, i detenuti ospitati nelle ventotto strutture presenti nell’isola arrivavano ad un totale di 7.148, a fronte di una capienza massima di 5.497, con la conseguente violazione di diverse norme, come quella riguardante il divieto di trattamento degradante, così come individuato dall’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani e precisato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
L’obiettivo di questa Giornata è stato quello di offrire un’immagine completa del mondo penitenziario e delle sue criticità (anche attraverso il racconto di alcuni reclusi), ma soprattutto di aprire la strada ad una stretta e coesa collaborazione, al fine di trovare soluzioni efficaci, che possano garantire il reinserimento sociale dei detenuti, grazie ad un percorso di reciproco riconoscimento, così come auspicato dallo stesso Ordinamento Penitenziario, favorendo, altresì, l’avvio di una sinergia propositiva tra il sistema giudiziario, l’esecuzione penale, gli Enti Locali, il mondo del lavoro e i reclusi stessi.
L’articolo 27 della Costituzione italiana, così come ha ricordato anche Fleres – prevede che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato», tuttavia, l’attuale assetto dei rapporti e delle procedure vigenti tra il sistema giudiziario, il mondo dell’esecuzione penale, le istituzioni e gli organismi pubblici e privati presenti sul territorio, nonostante le recenti innovazioni normative (come il decreto Svuota carceri del ministro Cancellieri), non sempre agevola il perseguimento di tale obiettivo.
«L’esecuzione penale costituisce e deve costituire il modo, non violento e non vendicativo, attraverso il quale uno Stato civile, democratico e rispettoso dei contenuti della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, risponde ad un delitto non con un altro delitto, sia pure legittimo o istituzionalizzato, bensì con la rieducazione e la risocializzazione che è, soprattutto, riconoscimento e rispetto della libertà e dei diritti dell’altro».
Attualmente, invece, in Italia il detenuto sconta la propria pena, non soltanto in maniera irregolare, ma spesso violenta, vedendosi privato di qualsiasi dignità e diventando egli stesso vittima, alla stregua di colui il quale ha offeso commettendo il crimine. Compito fondamentale della società, a partire dalle istituzioni, deve essere quello di reintegrare l’individuo, educarlo, istruirlo, nonché individuare e curare per tempo ipotetiche devianze criminali. «Più la società si nasconde dietro forme di giustizialismo o di securitarismo – ricorda ancora il Garante – più il crimine dilaga. I dati parlano chiaro: l’80% dei detenuti che scontano la pena in strutture sovraffollate, prive di trattamento, di istruzione e formazione professionale, ma soprattutto prive di lavoro e di assistenza sociale e psicologica, reiterano i reati e tornano più volte in carcere».
Non bisogna, poi, dimenticare l’aspetto economico della faccenda, per nulla secondario. Un giorno di detenzione arriva a comportare una spesa massima di 250 euro, per un importo annuo complessivo che si aggira intorno ai 3 miliardi di euro. Una cifra più che considerevole, ma che potrebbe essere giustificata se si ottenesse come risultato un’effettiva rieducazione e un corretto reinserimento sociale. Alla luce dello stato attuale delle cose, invece, si tratta soltanto di un enorme spreco.
Ecco allora, ancora una volta, che la soluzione potrebbero essere le pene alternative al carcere, soprattutto per le migliaia di persone che hanno commesso reati di scarso allarme sociale. Pene sicuramente meno invasive, più efficaci e meno costose. È, però, l’amnistia quello che chiedono fortemente i diversi direttori delle carceri siciliane e non solo.
«Dobbiamo cominciare a pensare il carcere in maniera diversa e offrire anche delle opportunità ai reclusi di rivelare talenti e risorse che magari la vita non gli ha dato», afferma la direttrice del carcere palermitano dell’Ucciardone, Rita Barbera. «Uno Stato civile deve dare risposte adeguate e idonee al reato commesso. È ora che la classe politica faccia una scelta, seppur difficile, oltre il popolo ma per il popolo».
La proposta lanciata non poteva che essere l’amnistia, la stessa alla quali si appellano da tempo i Radicali, impegnati in queste settimane – con l’appoggio di altri partiti – nella campagna referendaria “Giustizia giusta”.
Due dei dodici quesiti del referendum ruotano intorno proprio alla situazione delle nostre carceri. Poco più di una settimana fa, la dirigente del Partito Radicale, Rita Bernardini, era arrivata in Sicilia per presentare le riforme, focalizzando la sua attenzione sul quarto e sul quinto punto referendario, ossia quelli riguardanti la custodia cautelare, al fine di limitare il carcere preventivo (cioè prima della sentenza della condanna) ai soli reati gravi; e l’ergastolo, per abolire il carcere a vita e ottenere una pena detentiva che abbia la finalità di rieducare il condannato. “Il sistema carcerario italiano – denuncia la Bernardini – è ampiamente al di sotto della decenza. Strutture fatiscenti e sovraffollate, costringono i detenuti (la maggioranza dei quali è in attesa di giudizio) a vivere in condizioni inumane e a subire trattamenti a dir poco degradanti”.
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (visti gli articoli 76, 87 e 117 della Costituzione), ha controfirmato due anni fa il Decreto legislativo 122 del Consiglio dei Ministri, in attuazione della Direttiva 2008/120/CE, secondo la quale «il verro adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 metri quadri e i recinti devono essere sistemati e costruiti in modo da permettere all’animale di muoversi e avere il contatto uditivo, olfattivo e visivo con gli altri suini». «Tanta e giusta attenzione per gli animali, ma non si può dire lo stesso per gli uomini», continua il segretario dei Radicali. «In Italia i detenuti sono costretti a vivere in celle ben al di sotto dei 7 metri quadri minimi previsti, così affollate che a volte non hanno nemmeno 2 metri quadri a testa, costretti a non fare niente per 22 ore, mentre nelle restanti 2 passeggiano in cortili a dir poco infrequentabili. Questa non è pena rieducativa, ma una vera e propria tortura».
Le drammatiche condizioni delle carceri italiane, dove spesso non vengono nemmeno rispettate le più elementari norme igienico-sanitarie, rendono impossibile un reale recupero sociale di chi ha commesso un reato. Senza dimenticare che le leggi esistenti in materia vengono sistematicamente ignorate dallo Stato, che vive ormai in una situazione di palese illegalità. Tanto che a gennaio di quest’anno la CEDU (Corte Europea dei Diritti Umani) ha invitato l’Italia a «risolvere entro dodici mesi il problema strutturale del sovraffollamento delle carceri, incompatibile con la convenzione Ue». In particolare, la magistratura di Strasburgo ha condannato il nostro Paese al risarcimento di sette detenuti ospitati nelle case circondariali di Busto Arsizio e di Piacenza, per il trattamento inumano e degradante. Diversi controlli avevano evidenziato come le loro condizioni di vita fossero in netto contrasto con i diritti umani più basilari, oltre che minare le fondamenta dell’articolo 27 della Costituzione, che al comma 4 afferma: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La sanzione prevista dalla CEDU ammonta ad un totale di 100 mila euro per danni morali.
Una soluzione a lungo termine dell’annoso problema del sovraffollamento carcerario potrebbe essere, come già proposto tra gli altri dalla Uil Penitenziari, quella di pensare a nuove strutture dove ospitare i detenuti. In Sicilia, per esempio, sono già previsti nuovi padiglioni. Come al Pagliarelli, dove ormai è quasi pronto un reparto da duecento posti, mentre all’Ucciardone partiranno presto i lavori di ristrutturazione di un paio di sezioni, e nel Catanese verrà a breve costruito un nuovo penitenziario in grado di accogliere fino a 400 detenuti. Una soluzione immediata, invece, potrebbe essere quella dell’amnistia, come proposto dal referendum “Giustizia giusta” e punto sul quale da oltre un trentennio i Radicali si battono.
«Insieme a Marco Pannella – ricorda la deputata Bernardini – portiamo avanti la campagna a favore dell’amnistia sin dal 1976, affinché lo Stato italiano esca dalla situazione di flagranza criminale. Soltanto attraverso tale provvedimento, potremo mettere fine alle condizioni inumane di vita dentro le nostre carceri e ottenere anche la cancellazione delle procedure di infrazione dell’Italia. Fondamentale, in tal senso, è raccogliere in questi giorni quante più firme possibili, altrimenti si perderà ancora una volta questa occasione di riforma».
«Eppure – aggiunge – c’è una certa Sinistra contraria anche solo all’ipotesi-amnistia, per timore o convinzione che possa riguardare Silvio Berlusconi e che essa possa in qualche modo costituire un escamotage per sgravarlo dai tanti problemi giudiziari a suo carico. Sebbene tale strumento venga definito dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri un atto dovuto, ancor prima che utile, per poter ripristinare la legalità all’interno delle carceri e nei processi, vi sono purtroppo anche alcuni mass media che ne parlano esclusivamente in maniera negativa, per il semplice sospetto che possa finire per favorire l’ex presidente del Consiglio». Da qui, l’invito di Pannella rivolto al Cavaliere, affinché questi firmi pubblicamente i referendum radicali e dare così slancio alla campagna sui diritti e la giustizia.
Giustizia minata anche dall’eccessiva lunghezza dei processi. In un procedimento civile, in Italia, si può anche dover attendere fino ad otto anni prima che venga emessa una sentenza. Una durata irragionevole, soprattutto se paragonata agli altri Paesi dell’OCSE. In Svizzera, per esempio, il tempo minimo stimato nei tre gradi di giudizio è di 369 giorni. Un dato alquanto singolare se si pensa che tanto la Svizzera quanto l’Italia destinano al sistema giudiziario la stessa quota del PIL, vale a dire lo 0,2%. Già nel Settecento, Montesquieu riconosceva in una giustizia ritardata, una giustizia negata. E come dargli torto? La lentezza dei processi non può che avere dei pesanti effetti anche sul credito e sullo sviluppo del Paese, nonché sulla tutela della democrazia e dei diritti umani. Molto spesso, questi ultimi, messi a rischio dalla detenzione a vita, considerando anche le sopracitate condizioni delle nostre carceri.
«Abolire il carcere a vita – spiegano i Radicali – significa superare il concetto di pena come vendetta sociale. In molti Paesi europei, e non solo, l’ergastolo non è previsto neppure come ipotesi. Quello che deve essere chiaro, al di là delle opinioni politiche e personali, è che la nostra Costituzione (art.27, ndr) afferma che la pena deve tendere alla rieducazione e riabilitazione del condannato. E il “fine pena mai” è incompatibile con questo principio costituzionale».
Probabilmente, il quesito referendario relativo all’ergastolo è quello che maggiormente incontra le ritrosie dei cittadini. In Italia se ne discute da tempo e lo stesso partito Radicale ne aveva già proposto l’abolizione attraverso la formula del referendum nel 1981. Allora prevalsero i No, frutto anche – non si esclude – di una diversa situazione storico-culturale che l’Italia viveva in quegli anni. Gli anni di piombo, che, magari, fecero intravedere nell’ergastolo una possibile tutela dalla violenza.
«Su questioni del genere – interviene ancora la Bernardini – auspico che intervenga anche il Parlamento. Un forte segnale è arrivato recentemente pure da Papa Francesco, che ha abolito l’ergastolo nello Stato del Vaticano. Una decisione profondamente cristiana, aderente alla Costituzione e alle norme europee».
Il mese scorso, infatti, il Pontefice ha varato un’importante riforma della giustizia penale vaticana che, tra le altre cose, prevede proprio l’abolizione del carcere a vita, sostituito da una pena massima detentiva che va dai 30 ai 35 anni. È ora che anche l’Italia si adegui agli altri Paesi europei e riconsideri la funzione primaria del carcere, che non deve essere esclusivamente punitiva, tanto meno vendicativa, ma prima di tutto rieducativa del cittadino che viola la legge e, allo stesso tempo, possa fornirgli i mezzi necessari per reinserirlo nella società. Una società che si fonda non su atteggiamenti persecutori, ma sulla difesa della democrazia e dei diritti.

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