Pubblicato: mar, 4 Feb , 2014

Caso Manca: finalmente arriva il processo

Rinviata a giudizio Monica Mileti: finora l’unica imputata, accusata di aver ceduto la dose letale al giovane medico. L’avvocato Antonio Ingroia: «Da questo momento in poi abbiamo finalmente un processo, il primo in cui si potrà cercare la verità»

k2_items_src_a60933f9c15ca68d530bcba7295033dc-620x350Il gup Franca Marinelli, dopo aver ascoltato per due ore le requisitorie del pm Renzo Petroselli e dei legali di parte civile e della difesa, ha deciso per il rinvio a giudizio di Monica Mileti, unica imputata per la morte dell’urologo barcellonese Attilio Manca, per la quale la Procura di Viterbo ha chiesto il proscioglimento del reato (ormai in prescrizione) di omicidio colposo, confermando solo l’accusa per spaccio. L’udienza del processo è prevista per il 12 giugno 2014. Il processo è stato chiesto dai legali della famiglia Antonio Ingroia e Fabio Repici perché, hanno detto, «solo così potrà emergere la verità cui è rimasta sorda e cieca la giustizia». Lo scorso agosto si era verificata l’ultima archiviazione del gip del tribunale viterbese, che aveva coinvolto cinque dei sei indagati per cessione di droga.

Così, a dieci anni dalla morte del giovane medico, si apre finalmente per i suoi familiari uno spiraglio di speranza. Loro non hanno mai creduto che Attilio si sia suicidato con un mix di eroina, alcol e tranquillanti, ma hanno al contrario sempre sostenuto che la sua morte sia strettamente legata al viaggio che Bernardo Provenzano fece quando era ancora latitante. Il boss corleonese, malato di tumore alla prostata, nel 2003 si trovava a Marsiglia per essere sottoposto ad intervento. Nello stesso periodo l’urologo telefonò ai genitori dicendo loro di trovarsi in Costa Azzurra per «vedere un intervento». Per papà Gino e mamma Angela non c’è dubbio: l’operazione a cui faceva riferimento il figlio era proprio quella di Provenzano e, essendo poi diventato un testimone scomodo, Attilio è stato eliminato. Un delitto di mafia, quindi, coperto da una pesante coltre di omertà che dura ancora oggi. Dalla Procura di Viterbo questa verità non è mai stata nemmeno lontanamente cercata, nonostante le innumerevoli anomalie e “strane” coincidenze che ruotano attorno al caso. Agli inquirenti è bastata una lunga serie di congetture fondate su qualche indizio (non vi è nessuna prova acquisita) per affermare che Attilio si sia suicidato e che Cosa nostra non c’entri nulla.

All’uscita dall’aula al termine dell’udienza preliminare, Ingroia ha precisato che «c’è un vuoto di indagini sulla posizione della Mileti» e che questo vada approfondito in sede processuale. «Certamente la donna non è l’unica responsabile», ma finalmente si è ottenuto il processo: quel primo risultato che la famiglia attendeva da dieci lunghissimi anni. Ed esso si svolgerà «davanti a un giudice terzo senza pregiudizi rispetto a come invece si è comportata la procura di Viterbo, la quale, davanti alle evidenze probatorie, è sorda rispetto alle istanze della famiglia di Attilio Manca. Abbiamo già pronta una lunga lista di testimoni», ha aggiunto fiducioso l’ex pm. «Finalmente ci sarà un luogo nel quale potersi adoperare per la ricerca della verità, che in tutti i modi la Procura ha cercato di impedire – gli ha fatto eco l’altro legale, l’avvocato Repici –. Adesso anche i familiari di Attilio potranno finalmente intervenire nella ricostruzione dei fatti per l’accertamento della verità».

L’approccio giudiziario, come è emerso più volte, è stato sin dall’inizio a dir poco superficiale. Anzi, come hanno ribadito il fratello e la madre di Attilio, anche loro presenti ieri a Viterbo, «abbiamo assistito a indagini farsa». «È una vergogna, ma non ci arrenderemo mai». Con il dibattimento, i parenti della vittima potranno portare tutte quelle prove che il pubblico ministero non ha mai vagliato. Dall’assenza di impronte sulle siringhe (comprese quelle di Attilio) al fatto che il medico fu trovato riverso in una pozza di sangue con evidenti segni di colluttazione, dal fatto che i buchi furono trovati sul braccio sinistro nonostante lui fosse un mancino puro fino al verbale falsificato, firmato dall’ex capo della squadra mobile di Viterbo Salvatore Gava e, ancora, all’esame tricologico, «tanto decantato dalla procura di Viterbo – ricorda il fratello Gianluca – ma che in realtà non è stato mai eseguito».

Fino ad ora sul caso Manca la giustizia è stata negata e, peggio ancora, si è cercato di togliere dignità a questo giovane e promettente urologo innamorato della vita. Adesso si è ottenuto il primo, atteso e importantissimo passo in avanti: il processo. Da questo momento non ci sono più scuse: bisogna tirar fuori la verità.

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