40 anni dall’assassinio di Pio La Torre, eliminato dalla mafia
La relazione antimafia, il 416bis e il lavoro da lui portato avanti: fondamenta del nostro codice penale.
Pio La Torre (Palermo, 24 dicembre 1927 – Palermo, 30 aprile 1982) era di una famiglia contadina molto povera, una di quelle che rispetta la parola data e l’onestà più di qualsiasi altra cosa. In un’Italia tra le due guerre mondiali, senza ascensori sociali, a forma piramidale con con un vertice molto stretto, pochissimi avevano tutto e moltissimi non avevano nulla, tra questi la maggior parte erano appunto contadini poveri (Franco La Torre). La mamma Angelina, bracciante lucana analfabeta, ripeteva ai figli di studiare per non fare una vita miserabile. All’epoca, l’istruzione non era un diritto e nemmeno era uguale per tutti: per i poveri c’erano solo le elementari e l’avviamento professionale; per i ricchi, invece, medie, liceo e università. Pio riesce ad accedere al livello più alto degli studi, laureandosi con enormi sacrifici.
La Torre si impegna nel sociale, fin da giovane lotta a favore dei braccianti, finendo anche in carcere. E’ stato dirigente del movimento contadino siciliano, successivamente ai vertici regionali della Cgil e del Pci, nonché deputato alla Camera. Entrato a far parte della Commissione Parlamentare Antimafia nel 1972, il suo lavoro aveva dato fastidio come mai prima d’allora. A lui si deve la legge che introduce il reato di associazione mafiosa art. 416 Bis c.p. con sequestro e confisca dei beni ai mafiosi, approvata solo dopo il suo assassinio avvenuto a Palermo nel 1982 (Legge 13 settembre 1982 n. 646 – Proposta di legge n. 1581, presentata il 31 marzo 1980). Sempre lui è stato tra i redattori della Relazione di minoranza della Commissione antimafia, un documento ufficiale che metteva nero su bianco i rapporti di reciprocità tra Stato Politica e Mafia. Nel testo si spiega come l’inadeguatezza delle misure statali nel tutelare i cittadini abbia lasciato spazio alla mafia, che si è insinuata come organizzazione più efficiente dello Stato stesso. Spaventando ed incutendo terrore da una parte, cercando la solidarietà del popolo dall’altra, le compagini criminali obbligano all’omertà, aspetto fondamentale di cui hanno bisogno per assicurarsi l’impunità nei delitti. Occorre prendere atto, inoltre, che la mafia è un fenomeno di classi dominanti, i suoi membri rappresentano una sezione nient’affatto marginale delle classi alte. Sempre nella relazione, La Torre accusava duramente i Gioia, i Ciancimino, i Lima, ed altri uomini politici, di avere rapporti con la mafia.
Alle 9:20 del 30 aprile 1982, Pio La Torre assieme al collega e amico Rosario Di Salvo stavano raggiungendo la sede del partito a bordo di una Fiat 131. Quando la macchina si trovò in una strada stretta, una moto di grossa cilindrata obbligò Di Salvo, che guidava, ad uno stop, immediatamente seguito da raffiche di proiettili. Da un’auto scesero altri killer a completare il duplice omicidio. Pio La Torre morì all’istante mentre Di Salvo ebbe il tempo per estrarre la sua pistola e sparare alcuni colpi, prima di soccombere. Nove anni di indagini, solo nel 1995 vennero condannati all’ergastolo i mandanti del suo assassinio: Totò Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci. Ad oggi è l’unico parlamentare della Repubblica ucciso dalla mafia mentre era ancora in carica. Il quadro delle sentenze intervenute sul caso ha permesso di individuare nell’impegno antimafia di Pio La Torre la causa determinante della condanna a morte. Il 12 gennaio 2007 la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha emesso l’ultima di una serie di sentenze che ha portato a individuare gli autori materiali dell’omicidio. Furono condannati all’ergastolo come esecutori dei due omicidi Giuseppe Lucchese, Nino Madonia, Salvatore Cucuzza e Giuseppe Greco.
Pio La Torre aveva scoperchiato molteplici affari e stava pestando i piedi in più direzioni. Non solo l’odiato 416bis, che ancora oggi tutti i clan vogliono cancellare. Scrive la sua relazione a cavallo tra il 1975 ed i primi mesi del 1976, negli stessi giorni molti fatti accadono, tra cui anche la Strage di Alcamo Marina (27/01/1976). In questa circostanza persero la vita due carabinieri, che probabilmente avevano intercettato le armi di Gladio e su cui Peppino Impastato stava indagando. Nel 1977 Salvatore Riina, astro nascente dei Corleonesi, sempre della famiglia Cosa Nostra, uccise il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, (quello stesso Russo colluso che era implicato nella strage di Alcamo, all’epoca con Subranni, coinvolto nei depistaggi per Gladio e Peppino Impastato). La penisola e soprattutto l’isola vedevano la convivenza e collaborazione di tre forze (P2, Gladio e mafia) che venivano maestralmente dirette, la regia a Roma. All’interno di Cosa Nostra (che storicamente faceva riferimento politico a DC, Andreotti) il clan dei Corleonesi in questi anni prende il sopravvento con Totò Riina, che rimane sempre in contatto con Vito Ciancimino e Salvo Lima. Il traffico di droga e armi faceva gola a tutti i colori politici. D’altra parte, era già presente un giro di armamenti non indifferente. Dal 1966, referente politico di Gladio, (Stay Behind, organizzazione segreta dell’Alleanza Atlantica) era Cossiga (come da sua stessa dichiarazione, Edimburgo 1990; vedi anche Montanelli e Cervi L’Italia degli anni di fango), quello stesso Cossiga che eletto deputato per la prima volta nel 1958, divenne il più giovane sottosegretario alla difesa nel terzo governo Moro (23 febbraio 1966), il cui ministro era proprio Giulio Andreotti. Fine anni ‘70/inizio anni ‘80, emerge la questione di Comiso (Ragusa), dove gli americani volevano costruire ex novo un’altra base militare. Giorgio Napolitano, si recò perfino a Washington (4/9 aprile del 1978) per garantire l’affidabilità atlantica del partito comunista, che avrebbe appoggiato la base militare. Erano i primi giorni di prigionia del presidente Aldo Moro. I legami tra mafiosi, politici e gli USA per la base militare erano stati esplicitati nella Relazione di La Torre, che venne lasciato solo. Gli affari prima di tutto. La scena politica vede quindi Cossiga, Andreotti, il segretario del partito socialista Craxi, il segretario del partito comunista Berlinguer. A seguito del rapimento e uccisione di Aldo Moro, i rapporti tra comunisti e democristiani, che sostenevano insieme il governo Andreotti (grazie anche al Compromesso Storico –Moro Berlinguer), divennero più tesi. Il Pci voleva partecipare direttamente in parlamento, ma il rifiuto tassativo dei democristiani portò ad uno scontro e conseguente caduta del governo in carica. La DC, ormai senza più il vincolo di Moro, stava già guardando oltre, verso una possibile alleanza con i socialisti. Alla guida di questi ultimi si era consolidato Craxi, il cui progetto era superare i comunisti e formare una sinistra moderna. Per raggiungere questo obiettivo era però necessario avvicinarsi alla DC e tornare al governo. Craxi nel 1979 diviene quindi presidente del Consiglio, dando l’appoggio del suo partito per l’installazione in Sicilia dei missili Cruise puntati contro l’URSS. Si inasprisce lo scontro tra i contrari agli euromissili ed il Pci. L’anima del movimento pacifista antimissili fu proprio Pio La Torre, nonostante fosse ancora un carismatico dirigente del Pci. Il suo stesso partito non lo prese in considerazione. Il Parlamento approvò la “doppia decisione” della NATO ed i lavori cominciarono, con flussi di denaro incalcolabili. Gli appalti per la base furono conferiti direttamente dalle autorità statunitensi, col benestare della loro Intelligence. Comiso era 500 Km più indietro rispetto l’attrezzata e già esistente base di Gioia del Colle, in Puglia. Pio La Torre vi si era opposto fortissimamente, consapevole di tutti gli affari di cui era a copertura. Lo uccidono nell’aprile del 1982, nello stesso mese viene insignito della medaglia d’oro al merito civile.
Passano pochi giorni ed un altro eccellente personaggio ritorna in terra siciliana: è il generale Dalla Chiesa. Quasi trent’anni prima, da capitano, indagò a Corleone sull’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, riuscendo a incriminare già l’allora emergente boss della mafia Luciano Liggio (capo dei corleonesi di Cosa Nostra, il cui vice era Totò Riina e Gaetano Badalamenti) e conoscendo in quell’occasione proprio La Torre, che si insediava alla Camera del lavoro. Generale e prefetto, carabiniere, oltre che ufficiale di artiglieria, Dalla Chiesa ben capiva la logistica, le necessità delle basi militari e l’opportunità (o meno) di costruirne una. Torna a Palermo e partecipa al funerale di Pio La Torre, negli stessi giorni inizia il suo mandato da prefetto di Palermo, con il compito di distruggere Cosa Nostra. Solo tre mesi, 100 giorni dopo, delle raffiche di Kalashnikov AK-47, lo uccidono assieme alla moglie. Per gli omicidi sono stati condannati all’ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell’attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia entrambi all’ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione. La sera dell’assassinio, qualcuno fu mandato a casa del generale con il pretesto di prendere delle lenzuola per coprire i cadaveri, ma vennero sottratti dei documenti, tra cui anche il dossier sul caso Moro. Nei mesi precedenti, il nucleo investigativo coordinato da Dalla Chiesa, aveva rinvenuto un borsello e individuato un nuovo nascondiglio delle Brigate. Erano scaturiti nove arresti e una serie di perquisizioni, scoprendo testi riguardanti il rapimento di Moro, compreso il famoso memoriale. Questo sarebbe stato consegnato dal generale stesso ad Andreotti. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, il giornalista Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di segreti sul sequestro Moro che infastidivano Roma; Buscetta inoltre affermò che il boss Gaetano Badalamenti gli disse che “(Dalla Chiesa) lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui.” Sul giornale OP, Pecorelli scrisse che il generale, durante il rapimento di Moro, era riuscito ad individuare il luogo in cui lo tenevano prigioniero e aveva informato il ministro dell’Interno, ma Cossiga e Andreotti non lo avrebbero salvato perché «costretti a non intervenire». Nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che ebbe un colloquio con Andreotti il 5 aprile 1982, poco tempo prima di insediarsi come Prefetto di Palermo, nel quale espresse chiaramente la sua posizione, non avrebbe avuto riguardi per quella parte di elettorato mafioso, alla quale attingevano gli uomini della sua corrente in Sicilia, definendo la corrente andreottiana a Palermo «la famiglia politica più inquinata del luogo», fortemente compromessa con Cosa Nostra.
Dalla Chiesa e La Torre: due personalità centrali che si intrecciano nel comune intento della lotta alla mafia, ai poteri forti, alle stanze di Roma. Combattono entrambi Cosa Nostra, individuano il reale centro di potere, l’accumulazione di capitali illeciti, il fiume di denaro che la mafia smuove e utilizza per nuovi reati. Quel denaro sporco che va in banche compiacenti, nei cassetti dei collusi, nell’emergente mercato mondiale del traffico di stupefacenti e armi. Non storia già superata, ma tristemente ancora presente.
La Commissione Antimafia ha recentemente riesumato e approvato la relazione di La Torre/Terranova del 4 febbraio 1976 (Commissione Antimafia, Doc. XXIII,n. 12 del 28/04/2016). Nella relazione si rende esplicito che la compenetrazione tra potere politico e mafia è un incontro voluto da entrambe le parti. Secondo il parere della Commissione, se le mafie sono sempre più forti è perché non si è mai reciso quel nodo tra mafia e politica, la finanza, l’arma e tutte le forme di potere. Il procuratore capo di Palermo, all’epoca Francesco Lo Voi, riteneva che sostituendo la proprietà terriera del passato all’imprenditoria moderna, i concetti restano uguali. Le collaborazioni con la mafia continuano, si sono solo adattate ed evolute con i cambiamenti della società contemporanea. Anche l’attuale procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, da tempo sostiene che la mafia non è più quella di un tempo. La ‘Ndrangheta oggi è sicuramente a un livello superiore, soprattutto con la sua cupola di invisibili e uomini cerniera, ha un target più alto, interagisce col potere economico, con l’imprenditoria, col mondo delle professioni. Se le mafie non fossero state legittimate dalle Istituzioni e dal mondo imprenditoriale, sarebbero rimaste ai margini della società. Fin dalle loro origini, le organizzazioni criminali, hanno avuto la necessità di nutrirsi dei rapporti con il potere politico ed economico. Quest’ultimo, da parte sua, aveva bisogno di protezione e di garanzie. Nate come fenomeni di controllo sociale, le mafie sono sempre state delle organizzazioni funzionali al potere tanto da diventarne una sorta di patologia. Le mafie sono state ricercate, volute, sostenute dalla classe dirigente, legittimate dalle istituzioni prima con l’idea che fossero in grado di gestire l’ordine pubblico, e poi via via perché servivano per garantire, tutelare nuovi e vecchi privilegi. Nel sistema attuale, estremamente globalizzato, le mafie si sono rinnovate di volta in volta, hanno resistito ai cambiamenti politici, ai disastri ambientali e sanitari, ai fallimenti finanziari di intere nazioni, riuscendo a rafforzare giorno dopo giorno il loro potere. Oggi, la mafia è il principale attore che dirige economie e politiche nazionali ed internazionali.
Art.416 bis c.p. Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni. L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma. L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà. Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.