Pubblicato: mar, 27 Dic , 2022

27 dicembre 1896, a Palermo: Emanuela la prima donna vittima di mafia, Giuseppa la prima collaboratrice di giustizia

le donne e la mafia : alleate, vittime e denuncianti 

erano le otto di sera del 27 dicembre, correva l’anno 1896 a Palermo: una sparatoria ferisce Giuseppa di Sano e uccide la figlia Emanuela Sansone. Lei, solo 17 anni, è la prima donna assassinata da Cosa nostra di cui si ha notizia.

Il suo nome compare nel carteggio prodotto dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, in carica dal 1898. È nel suo Rapporto, tra i più importanti documenti sulla mafia dell’epoca, che Sangiorgi racconta la vicenda di Emanuela Sansone. La ragazza era la primogenita di Salvatore Sansone e di Giuseppina Di Sano, proprietari di una bottega di generi alimentari, in via Sampolo 20, nella zona Giardino Inglese. 

Due settimane prima dell’evento, i carabinieri avevano fatto irruzione in un conio di monete false gestito dalle famiglie mafiose in via S. Polo [ora Sampolo] in quella che era la periferia cittadina. Dopo il sequestro, i criminali cominciano a cercare il responsabile della soffiata. Pensarono che la colpevole fosse Giovanna Di Sano, il cui negozio era poco lontano dal ritrovo del clan. «Per quanto erroneo fosse stato questo sospetto – scrive il questore Sangiorgi nel suo rapporto – aveva molta apparenza di verità, giacchè il torchio per la coniazione delle false monete fu impiantato dal cognato della detta donna». Per questo motivo, «il clan arguì che la donna saputa per tal mezzo la cosa, ne avesse fatto confidenziale rivelazione ai Reali Carabinieri, che nella sua bottega si riforniscono di vino e commestibili ed il di cui Comandante si diceva amoreggiasse con Emanuela Sansone [sua figlia]». Inoltre, a confermare il sospetto, «La donna aveva rifiutato biglietti e moneta falsa che le famiglie dei falsari avevano tentato di spendere nella sua bottega, esprimendone risentimento». Una riunione del gruppo Falde, il mandamento di via S. Polo, ne ordinò la morte.

L’esecuzione avvenne poco dopo. I picciotti praticarono un foro nel muro di cinta del negozio e da lì spararono due colpi di fucile, ferendo lei e uccidendo la figlia. Un omicidio, quello della Sansone, che rompe il cliché della mafia come organizzazione criminale foriera di nobili valori. Si dice che i clan in virtù di un presunto codice d’onore risparmino gli innocenti, donne e bambini, ma la storia e la cronaca dimostrano invece il contrario. Le donne sono state uccise dalle mafie per l’impegno politico, sono rimaste vittime di delitti d’onore, sono state suicidate, oggetto di vendette trasversali, rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire. La “buona vecchia mafia”, la “società antica e onorevole” quella che considera intoccabili i più deboli non è mai esistita. È un’autorappresentazione che affonda le proprie radici già a fine Ottocento, per avere un aspetto più rispettabile.

E se da una parte la giovane Emanuela è stata una vittima di mafia, dall’altra Giuseppa è uno dei primi esempi del ruolo positivo delle donne, troppo spesso ignorato e dimenticato. Dopo l’omicidio della figlia, iniziò a collaborare con la giustizia, divenendo di fatto la prima donna collaboratrice di giustizia.

Esiste un dualismo dell’essere donna nel mondo mafioso: da un lato il percorso che le porta a quella premiership all’interno delle organizzazioni con ruoli decisionali, dall’altro quelle donne che proprio perché più protese al tema della legalità, alla difesa dei valori familiari e sociali, sono anche quelle che più di tutte si ribellano alla sovrastruttura mafiosa. La mafia al femminile si declina con i nomi di Maria Filippa Messina, Giusy Vitale, Maria Rosa Campagna. Componenti di strutture di mafie autoctone; imprenditrici in rapporto con la criminalità organizzata. Figure apicali, come nei procedimenti per le indagini sulle petrolmafie e la gestione dei capitali. Donne attive nello spaccio di stupefacenti o nella gestione dell’usura; nelle intestazioni fittizie. Donne che osteggiano la collaborazione degli uomini con le autorità. Il ruolo della donna nel contesto mafioso è sempre stato poco indagato, anche per i pregiudizi dei generi che permeano il territorio nazionale. Madri, amanti, mogli, complici, alleate, reggenti e leader. Pure nella narrazione tra intranei vi è stata una sorta di sottovalutazione, non volendo esplicitare le donne nel loro vero ruolo, spesso in sostituzione del boss incarcerato. Perno della comunità, braccia che scaldano e confortano, crescono i figli d’onore, tramandando e custodendo rituali ed usanze delle consorterie. Ma poi ci sono anche le donne di valori alti, come Francesca Morvillo, Emanuela Loi, Lea Garofalo, Felicia Impastato. Quelle che decidono di ostacolarne l’ascesa criminale, collaboratrici di giustizia, testimoni di giustizia. Donne anche esterne al clan ma vittime della criminalità organizzata, con il coraggio di denunciare, donne che sono state accanto a uomini giusti, uomini che hanno lottato contro la mafia, e altre che hanno fatto della lotta alla mafia la propria ragion d’essere.

Giuseppa di Sano scelse la strada più difficile: collaborò con il Questore Sangiorgi nel processo del maggio 1901 contro 51 imputati per crimini mafiosi. Dalle dichiarazioni della donna emerse l’amarezza per l’isolamento subito dopo la decisione di denunciare gli assassini della figlia: «mi sono veduta da allora mal vista e sfuggita da tutti ed alla piaga insanabile che mi produsse nel cuore la disgraziata morte della diciottenne mia figliola, si aggiunse ora il danno economico prodottomi dalle persecuzioni della mafia, che non mi perdona una colpa che io mai commisi». Gli esiti del processo furono piuttosto deludenti, sia per le numerose ritrattazioni nel generale clima di omertà, sia perché le pene inflitte agli imputati furono inferiori al massimo previsto dal Codice. Dei due esecutori materiali del delitto Sansone, Giuseppe Buscemi e Vincenzo D’Alba, solo il secondo fu condannato. I mandanti, per quanto noti, non furono mai indagati. 19 dei 51 imputati furono assolti grazie alle testimonianze di parlamentari, nobili e professionisti della città.

126 anni dopo, quel senso di solitudine e sopraffazione è ancora comune ai testimoni e collaboratori di giustizia italiani, spesso dimenticati e abbandonati dalle stesse istituzioni; lasciati in un girone infernale di prevaricazioni e abusi. Poco tutelati, per loro una vita piena di insidie e difficoltà che non ripaga lo sforzo di rettitudine e legalità espresso per il paese. Una nazione, la nostra, che sembra voler far di tutto per sbarazzarsi di chi denuncia, preferendo di gran lunga affiliazioni e compiacenze. La prima disciplina sulla collaborazione con la giustizia era stata voluta da quella mente geniale quanto lungimirante di Giovanni Falcone, all’epoca direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia (decreto legge n. 8 del 1991, convertito dalla legge n. 82/1991). La normativa è stata aggiornata con legge 45 del 2001, ma non risulta più in linea con le esigenze di tutela odierne e con l’evoluzione delle consorterie mafiose. In generale si prevede la possibilità di applicare uno speciale programma di protezione per coloro che sono esposti a “grave e attuale pericolo”. Il trattamento di protezione in essere è diverso per i testimoni e i collaboratori di giustizia, e rispettive famiglie. Il programma fa acqua da tutte le parti, non garantisce sicurezza, coperture, nuove identità, cure mediche e istruzione, alloggi e lavori compatibili con le esigenze di segretezza. Un sistema volontariamente ostacolato, che disincentiva la scelta di onestà. Non si vogliono nuovi collaboratori di spessore: il malfunzionamento del programma di protezione è un regalo che una parte della politica fa ai clan con cui intrattiene rapporti e che fa a se stessa, per evitare che nuovi pentiti possano citare nomi eccellenti come collusi e affiliati. Così, i denuncianti sono traditi dallo Stato, si palesano altri interessi e alleanze.

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