Pubblicato: dom, 27 Lug , 2014

Salvatore Borsellino: «Lotterò fino al mio ultimo respiro»

Il Comune di Santa Venerina consegna cittadinanza onoraria al fratello del giudice ucciso in via D’Amelio. Presente anche il Maresciallo Saverio Masi: «Assistiamo a stesso silenzio e isolamento precedente alle stragi del ’92-‘93»

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(copyright foto Mario Strano)

Il Comune di Santa Venerina, in provincia di Catania, ha conferito sabato 26 luglio la cittadinanza onoraria a Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia con un autobomba nella strage di via D’Amelio assieme agli uomini di scorta. Il conferimento ufficiale è avvenuto nel corso di una seduta consiliare, presso la sala “Maria Grazia Cutuli”.

L’importante riconoscimento è stato fortemente voluto dal giovane assessore del piccolo Comune, Sebastian Zappulla. È stato lui, infatti a segnalare l’attribuzione all’ingegner Borsellino – subito appoggiata all’unanimità in sede di Consiglio comunale- , in virtù del costante impegno nella lotta alla mafia e, in particolare, «per il lavoro svolto con tenacia e coerenza nella battaglia per la verità sulla strage di via D’Amelio, in cui fu ucciso il fratello, e per il sostegno a difesa dei magistrati». Una battaglia condotta da oltre un ventennio, che non può e non deve essere delegata solo ad un semplice cittadino. «La nostra comunità – ha aggiunto l’assessore Zappulla – con questo gesto riconosce la validità del lavoro coraggioso di questo uomo, che grazie alla sua grande forza d’animo è riuscito a far riaprire le indagini sulla strage di via D’Amelio i cui sviluppi hanno dato nuovi elementi ai fini dell’ottenimento di una verità più trasparente».

Ed è con palpabile emozione, che Salvatore Borsellino accetta l’onorificenza, sentendosi concittadino dei santavenerinesi ancor prima di accogliere fra le proprie mani la pergamena consegnatagli dal sindaco Salvatore Greco. «Io ho un grande debito verso mio fratello e verso la Sicilia, perché io sono andato via da qui a 27 anni e questa cittadinanza mi fa ritornare, in qualche modo, nella mia terra, che ho abbandonato troppo presto e in cui invece mio fratello è rimasto, perché ha saputo amarla più di quanto abbia saputo fare io, tanto da dedicargli anche la propria vita». Borsellino ricorda allora una delle frasi divenuta ormai tra le più celebri del giudice, colma di amore e di speranza: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Ma è soprattutto l’ottimismo a trasparire da queste parole. Lo stesso profondo ottimismo che non l’ha mai abbandonato neppure un giorno, nemmeno quel maledetto 19 luglio 1992. «Anche a me Palermo non piaceva, ma io – ha proseguito Salvatore – ho scelto di fuggire, di andare al Nord in cerca di una vita diversa per me, per i miei figli. E credevo che questa fosse la scelta giusta. Ho capito che, invece, era quella sbagliata, quando è stato ucciso mio fratello. E allora, oggi, ho una gran voglia di ritornare nella mia terra. Lo devo a Paolo, lo devo alla Sicilia. Questo grande debito cerco di pagarlo con tutte le mie forze e con tutta la mia voce, cercando verità e giustizia». La speranza di Paolo rivive in Salvatore, così come l’ottimismo non è andato perduto. «Sono particolarmente felice di ricevere questa cittadinanza onoraria da parte di una cittadina siciliana, dove l’amministrazione comunale incarna perfettamente l’ottimismo di Paolo. Sono loro, i giovani, ad avermi ridato la speranza. […] Per i primi cinque anni successivi alla sua morte, ero convinto che questa potesse bastare per liberare la nostra terra dal cancro della mafia. Così non è stato. Ma dopo aver parlato per lungo tempo per rabbia, so che finalmente un giorno si sentirà quel fresco profumo di libertà per il quale è morto mio fratello. E io, finché avrò respiro, continuerò a lottare». IMG_0303

Subito dopo la cerimonia ufficiale, l’ensemble giovanile “Falcone e Borsellino” della fondazione La città invisibile ha suonato alcuni pezzi in onore di Salvatore Borsellino. Al termine dell’esibizione dei ragazzi, l’attore Francesco Russo, nelle doppie vesti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, è riuscito a toccare le corde più profonde del pubblico presente, recitando nel toccante “La Mattanza”: l’atto unico scritto dallo stesso Russo insieme a Dario Cocciante e in cui si ripercorrono gli ultimi giorni di vita dei due magistrati. Una ricostruzione struggente e carica di ogni possibile emozione umana. E quasi sembra di rivederli questi due amici fraterni. Sono lì, davanti a te, mentre non puoi fare altro che piangere di dolore e di rabbia ed è come risentirli, quei fortissimi boati che squarciarono il cielo di Palermo.

La parola è passata quindi all’onorevole Angela Napoli, membro della Commissione Parlamentare Antimafia nella scorsa legislatura, che da 13 anni vive sotto scorta perché minacciata di morte dalla ‘Ndrangheta. «Sono qui per gridare insieme a Salvatore e al popolo delle Agende Rosse, nonché di tutti i cittadini onesti di tutta Italia, per avere verità e giustizia. Sono convinta che questo è il grido che Paolo Borsellino vuole sentire costantemente, così come vuole vedere rispettati i valori con i quali ha condotto la sua vita e per i quali è morto. […] Non dimentichiamo – ha proseguito – che sia Falcone che Borsellino sono stati lasciati soli e l’isolamento è la cosa peggiore ed è quello che sta accadendo a Di Matteo e a tutti i giudici che combattono realmente questo cancro. Non ci si può più fermare, né accontentare di quello che ci viene raccontato per tutelare le verità nascoste e i poteri occulti. Nessuno me lo toglie dalla testa che, dietro le stragi del ’92, c’è la trattativa Stato-mafia. Una trattativa che vige ancora oggi, benché diversa da quella di quegli anni. È un rapporto che sentiamo e viviamo ogni giorno. Non stanchiamoci mai di chiedere con forza che venga fuori quell’agenda rossa, dove certamente erano scritti dei punti di verità che possono portare alla Verità». IMG_0288

L’ultimo intervento degli ospiti è riservato a Saverio Masi, caposcorta del giudice Nino Di Matteo. Anche il maresciallo dei carabinieri, come precedentemente Salvatore Borsellino, si è rivolto in particolar modo ai giovani: «È proprio l’attenzione di questi che, al contrario di quello che si vuol far credere, rivolgono un impegno sempre maggiore al versante della legalità e soprattutto a ciò che negli ultimi anni sta di positivo accadendo a Palermo», a spingerlo a proseguire nella scelta di partecipare a tali conferenze. «Giovani che sempre più spesso e da più versanti, anche a causa di una crisi economica e della moralità politica che tendono a stroncare i loro sogni, potrebbero essere indotti ad una totale sfiducia nella Giustizia. Ma l’intelligenza e la sensibilità mostrata dai cittadini ha ormai interrotto questo meccanismo perverso messo in atto negli ultimi decenni da logiche massoniche; i giovani hanno risposto con la cultura dell’informazione a chi voleva negar loro l’evidenza di una verità ormai sotto gli occhi di tutti. I giovani sanno che tantissimo è già cambiato; che dopo l’arresto di quasi tutti gli “imprendibili boss stragisti”, la ricerca della verità è ormai indirizzata ai veri autori del disfacimento morale del nostro Paese, appartenenti ad una classe politica e istituzionale più che mai corrotta ed intestardita a mantenersi attaccata alle loro poltrone. I giovani adesso sanno, perché un dispiegamento mai visto prima di educatori ed insegnanti, seppure anche loro messi nella condizione peggiore per potersi adoperare più incisivamente nel percorso della legalità, hanno lavorato soprattutto sul versante dell’informazione, e questo nonostante l’Italia sia agli ultimi posti nella classifica mondiale sulla libertà di stampa». Non c’è da stupirsi, visto per esempio che certi giornalisti continuano a parlare di “presunta” Trattativa Stato-mafia. Anche oltralpe, però, non sono messi tanto bene se la francese Marcelle Padovani «è addirittura riuscita a far parlare i nostri morti, sostenendo che la posizione di Giovanni Falcone sulla Trattativa Stato-mafia, fosse più vicina a quella di un “illustrissimo” professore universitario (Giovanni Fiandaca, ndr) piuttosto che a quella dei magistrati della Procura di Palermo».

«Non mi duole solo il fatto che questi “presunti giornalisti” tentino di rianimare gli eroi, morti probabilmente anche a causa della loro conoscenza della Trattativa, ma soprattutto il fatto che queste opinioni siano state espresse all’interno del Palazzo di Giustizia, proprio il 23 maggio di quest’anno, alla presenza di tanti magistrati, che non hanno minimamente sentito il bisogno di dissociarsi né di esprimere solidarietà ai colleghi già condannati a morte, e contribuendo così al loro isolamento mentre rischiano la vita per far luce sul vero movente delle stragi».

«Così come duole il fatto che, dopo l’immenso abbraccio avvenuto il 19 luglio in via d’Amelio tra l’Ing. Salvatore Borsellino e Massimo Ciancimino, un pm della Procura di Caltanissetta, quindi impegnato in indagini comunque collegate a quelle della Procura di Palermo, abbia esternato pubblicamente aspre critiche nei confronti dell’Ing. Borsellino contribuendo all’isolamento dei magistrati della Procura di Palermo, rei forse di aver portato sullo stesso banco degli imputati politici e mafiosi, dimenticando, questo pm, che motivi di opportunità avrebbero dovuto impedirgli di esprimersi su un suo imputato, per di più esprimendo giudizi relativi alle accuse di calunnia di cui appunto Ciancimino risponde anche a Caltanissetta. E duole ancora di più vedere che lo stesso magistrato presenti libri che di fatto si inseriscono nel dibattito che costituisce un velato attacco all’ufficio del Pubblico Ministero che si occupa dell’indagine sulla “trattativa”».

Sono trascorsi 22 anni dalle stragi, ma è come se non fosse cambiato nulla, quasi il tempo si fosse cristallizzato. L’isolamento creato ieri attorno a Falcone e Borsellino, è uguale a quello in cui oggi «lavorano i magistrati del pool che si occupa della trattativa». Ciò che preoccupa ancora più delle minacce è il silenzio. «Silenzio che vuol dire in primo luogo isolamento e che anche in passato ha sempre costituito un fattore imprescindibile per poter tessere trame oscure di potere. Lo stesso silenzio che è stato fatto calare, intenzionalmente ed a più riprese, anche prima delle stragi del ‘92-‘93; un silenzio creato ad arte ed interrotto purtroppo soltanto dai boati di Capaci e via D’Amelio». Tutto ciò contribuisce ad alimentare «una strategia della tensione che ha riguardato in un modo o nell’altro tutti gli attori che ruotano intorno a questo processo, dai semplici sostenitori come l’ingegnere Salvatore Borsellino, ai testimoni come Massimo Ciancimino continuamente aggredito in ogni modo e forma, anche lui screditato e minacciato alla stessa maniera dei magistrati che si occupano di questo processo. Anche questo ci viene taciuto. Massimo Ciancimino, come saprete, è il figlio di Vito Ciancimino, ex politico democristiano condannato per associazione mafiosa, ed è uno dei testimoni chiave di questo processo, il più importante, a cui va senza dubbio il merito di aver permesso di aprire l’indagine che poi ha portato al processo in corso davanti alla Corte di Assise di Palermo. Per questo motivo, come già avvenuto in passato per altri processi scomodi come il processo Andreotti, oltre ad attaccare e screditare i magistrati e l’impianto stesso del processo, si cerca anche di screditare i testimoni più importanti per minarne l’attendibilità ed isolarli». Nei suoi confronti non solo non è stata presa ancora oggi nessuna misura di protezione, ma è in atto una vera e propria campagna di delegittimazione senza precedenti. E intanto Ciancimino, teste chiave del processo Trattativa, rischia la vita. «Un silenzio ed un isolamento che mai avrebbe potuto avere inizio se fossero ancora in vita i nostri Peppino Impastato, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno e tanti altri non presunti giornalisti».

«Ma ormai sappiamo! La capacità critica dei cittadini si è evoluta grazie alla divulgazione di semplici dati di fatto che non possono essere manipolati né fatti sparire. Sappiamo che accanto a Riina sullo stesso banco degli imputati vi sono uomini che hanno rappresentato le Istituzioni nel periodo post stragista. Qualcuno finalmente condannato ed in carcere come “l’Onorevole” Marcello Dell’Utri. Sappiamo anche che qualora il processo sulla trattativa dovesse concludersi con sentenza di condanna, a Riina toccherebbero pene detentive di pochi anni, del tutto irrilevanti per uno che ha collezionato una lunga serie di ergastoli e che quindi in ogni caso passerà il resto dei suoi giorni in carcere. Sappiamo che un’eventuale strage contro i magistrati di Palermo sarebbe in realtà controproducente, perché andrebbe a sortire gli effetti opposti a quelli voluti, in quanto finirebbe inevitabilmente per essere una conferma dell’impianto accusatorio del processo sulla trattativa. Pertanto appare più che legittimo pensare che ci sia qualcuno che teme fortemente che altre indicibili verità vengano a galla e che quello che Falcone definì “il gioco grande del potere” venga alla fine scoperto. Perché, così come più volte esternato dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, dott. Scarpinato, le lotte di potere in Italia si sono svolte spesso ed in larga misura nell’ombra, così come spesso si è fatto ricorso alla matrice mafiosa per coprire stragi e omicidi che invece avevano origini diverse».

Depistaggi e coperture da parte di esponenti delle Istituzioni che hanno segnato la storia del nostro Paese, a partire dal Dopoguerra. Anche la sparizione dell’Agenda Rossa e l’inquinamento delle indagini sulla strage del 19 luglio 1992 utilizzando falsi collaboratori «lasciano intendere che con la realizzazione delle stragi di Capaci e via D’Amelio si siano saldati, o meglio rinsaldati, interessi mafiosi ed interessi di soggetti esterni».

«Chi e perché aveva deciso che Giovanni Falcone, anziché essere facilmente ucciso a Roma con colpi di arma da fuoco, doveva essere ucciso a Palermo in un modo così eclatante? Come mai solo due giorni prima della strage di Capaci un’agenzia di stampa vicina ai servizi segreti anticipò in due articoli che stava per verificarsi un bel botto esterno per influenzare l’elezione del Presidente della Repubblica in corso di svolgimento? È stato uno degli stessi esecutori materiali della strage di Capaci a dichiarare che la tempistica della strage aveva consentito a mettere fuori gioco Giulio Andreotti dalla corsa alla Presidenza della Repubblica. Chi aveva quindi suggerito a Riina, oltre alle modalità esecutive, anche la tempistica? Chi è il soggetto esterno a Cosa nostra a cui fa riferimento il pentito Spatuzza, che assistette al caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per la strage di via D’Amelio? In un’intercettazione, la moglie del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, al quale era stato da poco rapito il figlioletto Giuseppe, successivamente strangolato e sciolto nell’acido, implorò il marito di non fare alla magistratura i nomi degli “infiltrati” nella strage di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta. Chi suggerì di compiere gli attentati di Roma nella notte tra il 27 e 28 luglio 1993 ai danni delle chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro, tenendo presente la “coincidenza” che i nomi di quelle chiese fossero i nomi di battesimo degli allora presidenti di Camera Senato, Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano? Cosa si nasconde ancora dietro l’inverosimile suicidio in carcere di Antonino Gioè, esecutore della strage di Capaci, depositario di scottanti segreti ed in contatto con i servizi, due giorni dopo le stragi di Milano e Roma? Cosa e chi si vuole coprire con la messa in scena dell’impossibile suicidio di Attilio Manca e quale verità si è voluta insabbiare uccidendo il poliziotto Nino Agostino?».

Ognuno di noi dovrebbe porsi ciascuna di queste domande, dietro le quali si celano le motivazioni per cui il processo in corso a Palermo fa paura a molti. È chiaro: qualcuno non vuole che vengano scoperte «ancora più indicibili verità».

«Sono stati uccisi magistrati coi componenti delle loro scorte, Prefetti, giornalisti, Presidenti della Regione, Sacerdoti, imprenditori, testimoni di Giustizia, una realtà mai esistita in nessuna parte del mondo occidentale; nessuno può rimanere indifferente a tutto questo e soprattutto non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò che sta accadendo oggi a Palermo perché la nostra indifferenza ha ucciso insieme al tritolo. Nonostante ciò che sovvenzionatissimi giornali lascino intendere, è fondamentale per la nostra democrazia che i giovani capiscano che quella che oggi chiamiamo Trattativa tra lo Stato e la mafia, oltre che ad aver sporcato il passato della nostra politica, continua a gravare sul nostro presente e ad ipotecare il futuro dei nostri figli».

«Ringrazio infinitamente l’Ingegnere Borsellino per aver mantenuto alta l’attenzione in Italia sulle commistioni tra poteri deviati dello Stato e la mafia sottolineando il fatto che, sono fermamente convinto che seppure l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino non verrà riconsegnata, il suo contenuto sarà riscritto nelle pagine del Processo che si svolge a Palermo, grazie ad un pool di coraggiosi magistrati che hanno deciso di andare fino in fondo, con la schiena dritta, seppur isolati ed attaccati da ogni parte, non di meno, purtroppo, dai loro stessi colleghi».

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