Pubblicato: sab, 22 Mar , 2014

Palermo: scuola intitolata ad Antonino e Stefano Saetta, uccisi dalla mafia

L’evento, a distanza di oltre venticinque anni dalla loro morte, organizzato in occasione della “Giornata della Memoria e dell’Impegno” in ricordo delle vittime di tutte le mafie
Antonino-e-Stefano-Saetta

Antonino e Stefano Saetta

Da oggi, dopo oltre venticinque anni dal loro brutale assassinio, una scuola di Palermo porta il nome del giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano, entrambi uccisi dalla mafia il 25 settembre 1988 sulla strada Agrigento-Caltanissetta: si tratta del plesso della scuola secondaria di primo grado di via Principe di Palagonia, 12, dell’istituto comprensivo “Giotto-Cipolla”, diretto dalla professoressa Rosa Cartella.

«La volontà di dedicare al giudice Antonino Saetta e al figlio Stefano il plesso della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo Giotto-Cipolla – ha detto il dirigente scolastico – è stata assunta con unanime voto dal collegio dei docenti e dal consiglio d’Istituto, con successiva acquisizione delle autorizzazioni dei competenti Uffici di Palermo. Tale iniziativa si colloca nel più ampio progetto della mia scuola di avviare i giovani verso un percorso di legalità anche attraverso la conoscenza di uomini che, col proprio personale sacrificio, hanno tracciato vie indelebili verso l’affermazione dei sacrosanti principi della morale e della giustizia sull’intero territorio siciliano. Sono veramente contenta, da canicattinese quale sono, che uno dei più illustri nostri concittadini sia ricordato per sempre nella città di Palermo anche attraverso l’intitolazione al suo nome di una scuola. Palestra, quest’ultima, di educazione non soltanto delle tradizionali discipline d’insegnamento, ma anche e soprattutto di buoni principi morali e di legalità per un domani migliore».

Alla cerimonia di intitolazione hanno partecipato Vincenzo Oliveri, presidente della Corte d’appello di Palermo; Leonardo Guarnotta, presidente del Tribunale di Palermo; Francesco Messineo, procuratore capo della Repubblica di Palermo; Barbara Evola, assessore alla Scuola del Comune di Palermo; Fabrizio Ferrandelli, vicepresidente della Commissione regionale Antimafia. Presenti anche il sindaco di Canicattì, Vincenzo Corbo, e Giovanni Lo Cascio, vicepresidente della V Commissione Attività Culturali del Comune di Palermo. «Sono lieto di esser qui, oggi, per ricordare il valore di un personaggio come Saetta, spesso “messo da parte” – afferma il dottor Oliveri –. Un uomo che mai si tirò indietro, ma con coraggio è andato sempre dritto per la sua strada, condannando i responsabili dell’omicidio Basile. La sua morte e quella del figlio Stefano non va dimenticata, ma anzi deve aiutarci a comprendere. È necessario che la loro memoria venga sempre coltivata. Finalmente il faro di Antonino Saetta comincia a rischiararsi». Gli fa eco il giudice Guarnotta, che ha sottolineato come spesso si cada nell’errore di distinguere vittime di serie A e di serie B. «Ed è quello che è toccato a Saetta, che applicava la legge con inflessibilità e determinazione, ma che rifiutava ogni genere di visibilità. Il suo nobile sacrificio, insieme a quello del figlio, ci ha lasciato l’enorme testamento morale di chi, come una stella cometa, ci ha voluto indicare la giusta via. Con la morte di chi ha cercato di consentire ai giovani di poter vivere in una società migliore, in una città dove potersi percepire come cittadini e non come sudditi, la società civile ha pagato un prezzo altissimo». Il ricordo di questa figura integerrima e “silenziosa” della giustizia italiana è vivo anche nella mente del procuratore capo Messineo. «Saetta incarna perfettamente il modello del “Buon giudice”, del magistrato come tutti lo immaginiamo: schivo, giusto, fermo. Non esistono sue apparizioni televisive e, forse, anche questo avrà pesato sulla relativa “dimenticanza”. […] Il suo omicidio ha avuto senza dubbio anche un intento preventivo, oltre che quello chiaramente punitivo. Ma si volevano pure “ammansire” tutti gli altri magistrati giudicanti impegnati in processi analoghi a quelli a cui aveva preso parte Saetta. La mafia volle lanciare così il messaggio che nessuno era al sicuro, nemmeno un giudice».

«Non va mai abbassata la guardia», è infine l’appello di Messineo. «La nostra generazione, anche se è triste doverlo ammettere, non vedrà la fine della lotta alla mafia. Ed è qui che deve sorgere l’impegno delle scuole, per formare le coscienze dei giovani».

Non è un caso che la cerimonia di intitolazione si sia svolta il 21 marzo, in cui si celebra in tutta Italia la “Giornata della Memoria e dell’Impegno”, organizzata ogni anno dall’associazione Libera in ricordo delle vittime di tutte le mafie. L’evento, infatti, vuole contribuire a mantenere vivo il ricordo di uno dei più alti magistrati in carica presso la Corte d’appello di Palermo, che mai, nella sua lunga carriera, si è piegato al potere criminale. Saetta presiedette alcuni storici processi che negli anni Ottanta contribuirono a sferrare duri colpi alle organizzazioni mafiose siciliane di allora, come quello celebratosi presso la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta contro gli imputati dell’omicidio del giudice Rocco Chinnici e quello celebratosi davanti la Corte d’assise d’appello di Palermo per l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Fu proprio la sentenza emessa dal giudice originario di Canicattì contro i colpevoli dell’omicidio Basile a scaturire la reazione violenza dei boss. I nuovi capimafia emergenti, Giuseppe Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia, erano stati tutti assolti in primo grado, ma in appello Saetta ribaltò il verdetto contro di loro, infliggendogli la massima pena. Così Cosa nostra gliela fece pagare. Il 25 settembre 1988, il giudice stava tornando a casa, a Palermo, insieme al figlio Stefano, dopo aver assistito al battesimo di un nipotino, quando vengono raggiunti da una raffica di proiettili. La Prisma grigia sulla quale viaggiavano viene ridotta in un attimo in un colabrodo e sul luogo dell’agguato verranno poi trovati centinaia di bossoli. Tale fu la ferocia dei killer, che vollero accanirsi sui due corpi anche quando era chiaro che ormai erano privi di vita. Impossibile non capire che erano stati gli uomini di Totò Riina a colpire su ordine del boss corleonese, che voleva così punire il magistrato colpevole di condannare assassini di efferati omicidi e, contemporaneamente, scongiurare la nomina di Saetta a presidente del Maxiprocesso d’appello ai vertici di Cosa nostra. Ma per avere anche la certezza giuridica bisognerà attendere ben 9 anni, quando cioè due giovani pm della Procura di Caltanissetta, Antonino Di Matteo e Gilberto Ganassi, riprendono in mano l’inchiesta a carico di ignoti precedentemente archiviata e riescono a far condannare all’ergastolo con sentenza definitiva i boss mandanti del duplice omicidio Riina e Francesco Madonia e l’esecutore materiale Pietro Ribisi (gli altri, tutti dell’agrigentino, nel frattempo erano stati uccisi), esponente della famiglia mafiosa di Palma di Montechiaro e suicidatosi in carcere due anni fa in circostanze poco chiare.

 

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