Pubblicato: lun, 18 Lug , 2022

19 luglio 1992: Paolo Borsellino

con la sua morte finisce l’era del pool 

Magistrato integerrimo, uomo umile di grande nobiltà d’animo. Assieme all’inseparabile amico e collega Falcone, è il simbolo della lotta contro le mafie. I due pm erano persone reali, con enorme volontà e tenacia. La voglia di cambiare le cose, il disgusto per i compromessi facili ed il sistema colluso di cui (tuttora) è permeato il nostro paese, li portavano a spingere l’acceleratore sulle indagini.

Vedevano la lotta alla mafia non solo come repressione, ma anche come movimento culturale e morale che potesse coinvolgere tutti e specialmente le nuove generazioni, affinchè potessero imparare a rifiutare il puzzo del compromesso, dell’indifferenza e della complicità. Miravano a rompere i sentimenti di accettazione e convivenza con la mafia, spezzare i muri di omertà, coinvolgendo il popolo tutto.

Falcone e Borsellino da piccoli giocavano per le strade del quartiere arabo di Palermo, in cui abitavano. Da grandi, conquistarono l’Italia con l’encomiabile lavoro nel Pool Antimafia. Un unico destino, solo 57 giorni li separarono dalla strage di Capaci e quella di via D’Amelio.

Avanzavano senza sosta, intenzionati a scardinare i vertici delle organizzazioni criminali. Per loro fu una vita di privazioni e sacrifici. Non mancarono i momenti di delusione ed amarezza. Più si avvicinavano alle scottanti verità, scalando i nomi della cupola di Cosa Nostra, e più venivano isolati, abbandonati, maltrattati. Addirittura tolti dai loro incarichi, diffamati, indagati a loro volta. Erano chiaramente delle figure forti e scomode. Il Maxiprocesso (iniziato nel 1986), con ben 475 imputati, fu il più grande attacco alla mafia mai realizzato in Italia. Sotto alte direttive, ma per mano di Cosa Nostra, altrettanto incattivita per lo sgarbo subìto, le uccisioni incrementarono violentemente. Falcone sparì nel cratere lasciato dal tritolo. Borsellino rimase solo, distrutto dagli eventi, ostacolato anche dal capo della procura palermitana. Nei due mesi successivi alla strage di Capaci lavorò ancora più intensamente. Sapeva di essere un “cadavere che camminava”, non aveva più tempo. Eppure, voleva trovare le prove che inchiodavano il mandante e rendere giustizia a tutte le vittime, prima che i sicari arrivassero a lui.

Nell’ultima apparizione pubblica, nella biblioteca comunale, il giudice lasciò presagire la sua fine imminente. “Quando Falcone, [rimasto] solo, per continuare il suo lavoro propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro. Ed il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo, preferì Antonino Meli.[…] Queste cose che io so, possono essere utili all’evoluzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone e che, soprattutto nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita anche parte della mia, della nostra vita.

Venne a conoscenza del papello di richieste di Cosa Nostra, ma non sarebbe mai sceso a compromessi, con lui non ci sarebbe stata nessuna trattativa stato-mafia. Le indagini lo portarono anche in Germania, a Mannheim, dove proseguiva gli interrogatori con pentiti e non. Avrebbe potuto scappare, nascondersi sotto falso nome. Mettersi in salvo con la famiglia. Sapeva che a Palermo era già arrivato un carico di esplosivo, destinato proprio a lui. In pochi giorni lo avrebbero ucciso, “il tritolo è arrivato anche per me, lunedì scorso” (rif all’amico Giuseppe Tricoli). Il 20 luglio del 1992 avrebbe dovuto testimoniare presso gli inquirenti di Caltanissetta, titolari dell’inchiesta sulla strage di Capaci. Il giorno prima fu assassinato davanti l’abitazione della madre in via d’Amelio, a Palermo, dove vi era un gran numero di auto parcheggiate. Alle 16:58 del 19 luglio 1992 sparisce, nel boato di una carica da un quintale di tritolo. Nessuna precauzione era mai stata presa nella zona, nonostante le ripetute sollecitazioni, anche dagli agenti di scorta.

Arrivò poi una telefonata anonima alla Questura di Palermo. Una donna spiegava che in via D’Amelio c’era un palazzo in costruzione di proprietà della famiglia Graziano, affiliata al clan dei Madonìa (sempre Cosa Nostra). Da lì, si aveva una visuale perfetta del punto in cui fu fatta esplodere la bomba. Gli agenti vi trovarono uno dei fratelli Graziano e sul tetto terrazzato un vetro scudato. A terra decine di mozziconi di sigarette, come se qualcuno si fosse messo in attesa per molte ore. La relazione destinata alla Criminalpol, svanì nel nulla (rif. Pm Domenico Gozzo). Così come non si ha più nessuna traccia dell’agenda rossa di Borsellino, contenente tutti i suoi preziosi appunti sulle indagini.

Molte, moltissime contraddizioni, depistaggi. Notizie insabbiate. A distanza di anni ed anni. Ma anche questo Borsellino lo aveva previsto, «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri». Tutto doveva cambiare perché tutto restasse come prima.

Ogni giorno si rimanda per il riscatto, la guarigione. Nelle strade siciliane converge la storia di tutti gli italiani, un passato insanguinato ed il presente che non deve e non può cambiare per il futuro. La regia a Roma, i tentacoli eseguono. Con messaggi intimidatori (il più recente, l’inquietante avviso di una nuova bomba al dott. Gratteri) marcano il territorio e ricordano che la mala non se ne è andata.

In Italia vige volutamente il sistema dei favori, delle amicizie e delle raccomandazioni. La corruzione è un vincolo di accesso al lavoro e ai diritti negati. E’ la scorciatoia che crea clientelismo e debitori, in un circolo vizioso che non sembra conoscere fine.

“Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così.

Solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche ed incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare.

Ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare”.

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