Pubblicato: dom, 22 Ott , 2017

Sistema carceri superato, la rieducazione passa anche tramite il lavoro.

La deterrenza consiste nella promessa di una sanzione, per indurre le persone ad astenersi dal delinquere. Anche per questo, bisognerebbe recuperare un minimo di coerenza, nel far seguire i fatti alle parole.

 

Chi delinque commette -per definizione stessa- un reato: cioè quel fatto giuridico previsto dal legislatore (principio di legalità), al quale l’ordinamento ricollega una sanzione (pena). E’ un fatto umano attribuibile al soggetto (principio di materialità) offensivo di un bene tutelato (lesione o minaccia), sanzionato con una pena ritenuta proporzionale all’offesa (illecito amministrativo, civile o penale).

Con le debite distinzioni tra delitti e contravvenzioni, colpevolezza e circostanze intervenute, dando come punti di partenza imprescindibili l’equità dei processi e la certezza della pena, sembra ormai necessario rivedere l’approccio allo sconto della pena.

Chi delinque ha, infatti, un debito con la società, che deve saldare (monetariamente e moralmente).

Il risarcimento generalmente è un ristoro pecuniario, o “per equivalente” che mira a ripristinare il bene perduto o offeso. Sul piano civilistico è sempre patrimoniale, anche quando l’offesa riguarda affetti o sofferenza morale. Ugualmente, in ambito penale la vittima che si costituisce parte civile può ottenere un ristoro in termini monetari. Che dire, però, della detenzione?

E’ interpretata più come punizione, reclusione e segregazione dalla comunità che concreto risarcimento, ed infatti fino ad oggi ci si è occupati di creare istituti sufficientemente capienti.

ll carcere è la struttura in cui si sconta la pena detentiva (escludendo dalla disamina istituti di igiene mentale, ospedali, riformatori..), funzionale per l’allontanamento dalla società.

La normativa del ‘97 stabiliva che “le spese per l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza detentive erano tutte a carico dello Stato“. Un peso economico enorme con migliaia di persone da mantenere, a cui si sommano i costi delle strutture stesse.

“E credo che il carcere debba essere un luogo di rieducazione e avere, dunque, le caratteristiche delle istituzioni educative, attente a tirar fuori dallo studente ogni elemento che gli permetta di diventare più utile alla società. Il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far del male è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito una voglia di correre e di correre contro la legge. Senza considerare l’assurdo di un luogo dove si accumula la criminalità, che ha un potere endemico maggiore di un virus influenzale”. (Vittorino Andreoli)

E’, inoltre, opinione ampiamente diffusa che la mera detenzione non sia rieducativa per il reinserimento in società. Ozio e noia diventano i peggiori vettori per piani criminosi e liti tra detenuti, incrementando i comportamenti violenti e destrutturati.

Occorre rispondere all’esigenza di educazione ed istruzione, partendo dall’idioma per gli stranieri. Ciò diventa imprescindibile per una convivenza corretta e pacifica. Così come informare circa leggi, tradizioni, usi e costumi vigenti nel territorio, affinchè siano compresi e quindi rispettati in futuro.

Colui che apre la porta di una scuola, chiude una prigione. (Victor Hugo)

Non è possibile lasciare a discrezione del detenuto la frequenza di classi o laboratori. Potrebbe essere più sensato, invece, tramutare la pena da reclusione inoperosa a tempo obbligatoriamente indirizzato con lezioni e svolgimento di lavori utili (per loro e la società).

Non solo punitivo ma anche rieducativo è il “carcere aperto” con lavori, studi e formazione professionale a carico dei detenuti stessi. L’obiettivo è duplice: con l’attività di tutti i detenuti si sgrava la società dal loro mantenimento, possibilmente raggiungeranno un bilancio in attivo che produca ulteriori guadagni da poter investire in opere pubbliche ed aiuti sociali. Coltivazioni o fatture manuali permettono loro di impegnarsi in qualcosa istruttivo e propositivo, acquisendo una professione, che fuori dal carcere sarà una valida alternativa all’illegalità.

Oltre il 75% degli ex detenuti torna a delinquere (presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia Giovanni Maria Pavarin), ma il rischio di recidiva scende moltissimo quando in carcere si offre la possibilità di un lavoro. Dopo la cosiddetta Legge Smuraglia, gli imprenditori che affidano lavori all’interno del carcere usufruiscono di sgravi e agevolazioni non indifferenti, ma dei 57mila detenuti in Italia (31 maggio 2017: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST1333303&previsiousPage=mg_1_14) sono pochissimi quelli attivi.

Anche se molto deve essere ancora fatto, un passo avanti sembra arrivare con la recente normativa della Legge 45/2017, (modificativa della L- 44/1997). Oggi il detenuto “partecipa alle spese per l’esecuzione delle pene e delle misure cautelari detentive” (art.2 L.45/2017). La rieducazione diventa più specifica, con “un programma personalizzato” (art.10). Il programma di trattamento si articola anche attraverso il lavoro, per “far acquisire una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative e ad agevolarne il reinserimento sociale” (art.18). Il lavoro deve altresì consentire il mantenimento e, se possibile, l’accrescimento delle capacità lavorative. Nell’assegnazione, al fine di responsabilizzare il detenuto, vengono comunque prese in considerazione e valutate le sue proposte. Sulla remunerazione spettante ai detenuti sono prelevate le somme dovute a titolo di risarcimento del danno, di rimborso delle spese di procedimento e di mantenimento in carcere. I detenuti possono essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito, tenendo conto anche delle loro specifiche professionalità e attitudini lavorative, nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività.

Il mondo carcerario potrebbe essere trasformato in una risorsa economica per il territorio.

In alcune realtà, i denuti del laboratorio di cucina forniscono il pane prodotto nel forno dell’istituto a tutte le scuole comunali, con un risparmio di circa 30mila euro l’anno di soldi pubblici (casa circondariale di Montorio-Verona).

Un ulteriore esempio virtuoso arriva dall’Isola di Gorgona, nel mar ligure, con un carcere dedicato all’agricoltura e all’allevamento. Si lavora tra caseificio, mulino, frantoio, cantina per vinificare, oltre ad un impianto fotovoltaico e uno di fitodepurazione. Coltivano ortaggi, olivi, viti ed allevano gran parte degli animali domestici (bovini, ovini, suini, avicoli, equini, apicultura, ittica). Molte altre attività garantiscono autonomia, assicurano la manutenzione dell’isola.

Le “Cene galeotte” del carcere di Bollate e Volterra, percorso professionalizzante in ambito ristorativo, oppure la pasticceria Giotto all’interno del carcere Due Palazzi di Padova, le “Malefatte” di Venezia, “Pescaturismo” di Napoli, “Buoni dentro e Fuori” a Palermo, così come altre attività virtuose, sembrano dare riscontri positivi.

Il carcere è un luogo di frontiera, dove occorre intervenire educando, trasmettendo valori e principi. Il lavoro è collegato con la dignità dell’uomo e la sua riabilitazione passa anche tramite quello. Perché non prendere questa direzione?

 

 

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