Pubblicato: dom, 23 Ago , 2015

Siamo stati tutti migranti.

La Bibbia, che i leghisti giurano di tenere sul comodino, è libro di esodi e di migranti. Gesù era profugo e clandestino.

E’ legittimo rimuovere ricordi dolorosi, ma non fino al punto da ignorare il dolore, fino al punto da attribuire a coloro che soffrono accanto a noi, non la sofferenza ma qualità degradate, le stesse che ci venivano accreditate quando ci trovammo nelle medesime condizioni.

immigratiSiamo stati 30 milioni gli italiani che emigrammo negli anni della nostra povertà. Considerato che oggi siamo circa 60 milioni, siamo stati noi popolo italiano a dare il contributo maggiore al fenomeno migratorio. La prima cosa che le camice verdi e i loro ripetitori non sanno, è che, fino al 1880, l’80% degli emigranti veniva dal Nord, il 7% dal Centro e solo il 13% dal Sud. Dal 1880 al 1925, dei quasi 17 milioni di uomini, donne e bambini che hanno lasciato il Paese il 50% era del Nord, e fra essi ben 4 milioni erano veneti, l’11% del Centro e il 39% del Sud.

Il 90% era analfabeta e al loro arrivo alle frontiere venivano subito individuati poiché portavano il “Passaporto Rosso” che li inquadrava nella categoria della manovalanza da adibire a lavori umili. Più o meno dal 1950 fino agli anni ’70, le condizioni del Paese, da poco approdato alla Repubblica, iniziarono a migliorare e, dunque, pure il livello di istruzione, e tuttavia gli analfabeti, tra gli emigranti, rimanevano tra il 60 e il 75%; il contributo più grande, sia in termini numerici che di mancanza di istruzione, adesso veniva dato dal Sud, ma anche dai veneti che continuarono ad essere poveri ed umili, fino agli anni del boom che li avrebbe resi, rapidamente, agiati e intolleranti. Specie nelle miniere di carbone del nord Europa, in Belgio soprattutto, dove i belgi non volevano più andare, scendevano i veneti a patire, ammalarsi e morire. A Marcinelle ne rimasero soffocati e sepolti 262. Solo qualche anno dopo, allorchè un’eruzione dell’Etna seppellì morti e arrecò gravi danni, sui muri del Veneto comparvero scritte di tal genere: “grazie Etna, continua così”

L’emigrazione italiana più rimembrata dalla letteratura e dal cinema è stata quella verso gli Stati Uniti e le Americhe. Ma pare che tutto sia stato rimosso, le grandi sofferenze, le umiliazioni di esseri umani che, appena giunti da viaggi estenuanti, venivano ammassati negli edifici di Ellis Island o di qualche altro porto come Boston, Baltimora o New Orleans per essere sottoposti all’esame di carattere medico e amministrativo. Dall’esito d’esso dipendeva la possibilità di mettere piede nella “terra promessa”. La severità dei controlli fece ribattezzare l’isola della baia di New York come “l’Isola delle lacrime”.

Ma cosa affrontava questa gente? Furono 7 milioni e 600mila quelli che cercarono fortuna nelle Americhe, tra Argentina, Brasile e Stati Uniti. Come si evince consultando i documenti del Museo nazionale dell’emigrazione italiana, le navi dove si imbarcavano erano “carrette del mare”, piroscafi in disarmo, approntati da armatori di pochi scrupoli. Venivano chiamati, pure allora, “vascelli della morte”. Potevano contenere 700 passeggeri e ve ne venivano caricati oltre e più di 1000, partivano senza certezza di arrivare. Furono migliaia e migliaia ad arrivare cadaveri, per fame, malattie, naufragi in gran numero. Il 25 ottobre 1927, la “Principessa Mafalda” naufragò per le avarie del natante e annegarono tra le acque, si dice, 657 tra piemontesi, liguri e veneti diretti in Brasile. Non vi è assoluta certezza sul numero delle vittime perché anche allora c’erano i clandestini. Clandestino non significa necessariamente soggetto che si imbarca in una crociera piacevole per suoi astuti e sinistri calcoli. Chi è disposto a subire i trattamenti e le condizioni più crudeli, cinghiate, frustate, incisioni col coltello anche in testa, di esser chiuso in stive maleolenti, stracolme e prive d’aria e sovente morire, deve avere, almeno di solito, motivazioni umane ben più profonde di farsi una villa a Portofino o ad Arcore.

Secondo statistiche del 1948 in Germania, Francia e Svizzera gli italiani che vi emigravano erano al 90% irregolari, clandestini dunque. Il comune di Giaglione in Val di Susa arrivò a chiedere aiuto alla prefettura di Torino “non avendo più risorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi”. Di lì, scriveva il “Bollettino quindicinale dell’emigrazione” cercavano di passare illegalmente in Francia “molto più di cento emigranti” ogni notte. Erano soprattutto veneti, piemontesi e anche lombardi.

Gli episodi di sfruttamento messi in atto dagli agenti dell’emigrazione erano quotidiani. La povera gente, da questi agenti, come dai “padroni”, talora anche italiani, veniva costretta a pagare per la casa, sovente una stamberga, e il lavoro trovato. Chiunque potesse sfruttare l’ignoranza degli immigrati non si faceva scrupolo, in Italia e in America, usurai, sindaci, preti, notai, agenti esigevano pure percentuali sul biglietto di viaggio. Einaudi denunciò episodi di gruppi di immigrati abbandonati in aperta campagna da chi avrebbe dovuto favorire il loro viaggio.

Come vedete non vi è niente di nuovo sotto il sole. La miserabilità umana è sempre in agguato per far occasione anche delle disgrazie altrui. Vi sono i cooperatori di mafia capitale e pure piccoli miserabili che vendono i “materassi” agli immigrati e poi scendono in strada a urlare di cacciarli via perché loro non li vogliono. Questo non vuol dire che gli italiani abbandonati nella campagna sarebbero dovuti esser lasciati morire, come “i neri” in mare. Ci è stato messo sul collo il fastidioso cervellino per saper distinguere da soli tra vittime e approfittatori.

Da un’inchiesta del 1897 risultò che il 22% degli immigrati negli Stati Uniti veniva sfruttato dai padroni, doveva riversargli una quota del salario e obbligarsi ad acquistare le merci in uno spaccio da lui indicato. A New York 2000 boss s’accaparravano i servizi degli italiani, mentre banchieri complici garantivano che gli immigrati non sarebbero stati a carico dello Stato. Era facile finire tra le spire della criminalità.

Gli italiani, nelle città statunitensi, vivevano in quartieri riservati a loro, ghetti dove le case sovente avevano illuminazione scarsa e perfino l’aria era poca, le condizioni igieniche erano precarie, per cui pullulavano le malattie. Venivano apostrofati dai nativi, o da coloro che si erano stabiliti in America da maggior tempo, come “pesti importate dall’Europa”. Era la definizione che aveva dato un periodico nel 1894.

Le abitudini degli italiani disturbavano gli americani: non ne sopportavano l’arretratezza culturale, i loro costumi rurali improponibili in città già avviate al consumismo, li accusavano di essere sporchi, rumorosi e di praticare riti religiosi primitivi.

Una Commissione parlamentare, istituita nel 1911, li definì come coloro che davano un contributo determinante alla crescita del fenomeno delinquenziale nelle città americane. La violenza, nei ghetti italiani, era effettivamente palpabile , ma veniva descritta come connaturata alla natura, cultura e tradizione degli immigrati. Il 1 gennaio 1894 sul New York Times si poteva leggere il seguente resoconto. “Abbiamo all’incirca in questa città trentamila italiani, quasi tutti provenienti da province dove, fino a poco tempo fa il brigantaggio era l’industria nazionale. Non è strano che questi briganti portino con sé un attaccamento per le loro attività originarie”.

Insomma pregiudizi, luoghi comuni, scarsa conoscenza delle cause, ignoranza crassa di cosa vi sia al di là del proprio naso, del proprio angusto ambito, paura delle diversità e difesa dei propri privilegi. Ieri esattamente come oggi, sebbene con ribaltati ruoli in scena.

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