Pubblicato: mar, 24 Mar , 2015

La pietra di Bendir.

Rabouni: dopo 5 giorni a Dakla il ritorno al campo base sapeva di fine viaggio.

 

– Di: Sauro Testi –

saharawiNel 1975, in Spagna, la caduta di Franco portava come conseguenza il ritiro dell’esercito dalla colonia chiamata Sahara Spagnolo, una striscia di terra tra la Mauritania ed il Marocco, che ha di fronte l’Oceano Atlantico e le Isole Canarie. Il Sahara Occidentale, questo il suo vero nome, è ricco di minerali, con un mare pescosissimo ed una collocazione geografica purtroppo strategica , sicuramente le vere cause di tutte le sue disavventure negli anni.

Il ritiro degli spagnoli favorì l’immediata invasione da sud della Mauritania e da nord del Marocco.

Dopo pochi mesi, durante i quali migliaia di Saharawi cercavano scampo fuggendo verso il deserto algerino del Sahara, rimasero solo i marocchini che iniziarono una nuova colonizzazione, la marcia verde, con un milione di persone che andarono ad occupare quei territori . Chi decise di non scappare sarebbe invece rimasto chiuso da un muro di 2700 km che lo avrebbe condannato ad essere straniero in patria, sotto un’occupazione durissima. Quest’anno ricorrono 50 anni da quell’invasione dimenticata o volutamente non vista.

                                                                                       La pietra di Bendir

Lì era cominciato tutto solo pochi giorni prima, quando nel buio della notte, eravamo stati scaricati da un camion che ci aveva prelevato dall’aeroporto di Tindouf, nel sud dell’Algeria.

Una notte a dormire per terra in una stanza piccola e senza luce e la mattina dopo iniziava la ricerca di una jeep e di un autista che ci avrebbe accompagnati per tutta la settimana di spostamenti tra le varie tendopoli. Il rientro avveniva l’ultimo giorno prima di riprendere l’areo destinazione Algeri e passavamo quelle ultime ore girovagando per quello strano centro di smistamento che sapeva un po’ di fortino e che rispondeva al nome di Rabouni.

Era l’area in cui i Saharawi cercavano di organizzare tutti i movimenti nel territorio loro assegnato dagli algerini e controllavano gli spostamenti verso le 4 tendopoli di Ausserd, Elajun, Smara e Dakla. Da dieci anni, puntualmente, un gruppo di noi si recava a Dakla, la tendopoli più distante verso est, ma anche la più affascinante, dove avevamo intrapreso un progetto di adozioni a distanza per bambini orfani e di aiuto ai centri per bambini non vedenti e bambini disabili.

Tutti gli anni la stessa emozione pazzesca quando dopo 5 ore di camion o 3 di jeep ci apparivano in una piccola valle le tende afgane e le piccole costruzioni in mattoni di sabbia in cui vivevano i circa 35.000 Saharawi di Dakla.   Quei giorni in mezzo al deserto, dove i cellulari non funzionavano e non avevamo più alcun contatto con il nostro mondo di tutti i giorni, diventavano una specie di immersione in una dimensione assolutamente parallela alla nostra, dove in un mondo, infondo vicino ma incredibilmente distante, incontravamo uomini, donne, bambini, che ci raccontavano un mondo diverso, fatto di rabbia e dolore, di paura e fatica ma anche di affetto, di orgoglio, dignità di rispetto e coraggio, in cui si sentiva che lì ognuno poteva solamente essere quello che realmente è e non ciò che appare o si racconta.

Era diventata la casa in cui per un breve periodo tornavamo per vivere una vita fatta di cose diverse che non smettevamo più di raccontare e dalla quale non avremmo più potuto separarci, non era solo un posto per noi affascinante, di una bellezza assoluta e terribile, ma era il luogo dove sentire ciò che da nessuna altra parte si può…….mal d’Africa.

Il resto del gruppo aveva deciso di uscire dal centro di smistamento ed andare a comprare frutta in un piccolo mercato a poche centinaia di metri di distanza ma io non li avevo seguiti. Come tutte le volte iniziato il viaggio di ritorno un senso di vuoto iniziava ad invadere tutti i miei pensieri e per alcuni giorni avrebbe alterato non solo il mio umore ma la stessa percezione di tutto quello che mi accadeva intorno….che strano il mondo in cui si tornava a vivere. Allora ero sindaco del mio piccolo comune e con gli occhi , la mente ed il cuore invasi da ciò che avevo visto ancora una volta, della sensazione di impotenza e di profonda ingiustizia, dalla tristezza di lasciarli soli in mezzo al nulla ancora una volta, era durissima ascoltare il vuoto e l’ipocrisia che riempivano tanti discorsi e tante azioni nel nostro quotidiano.

Stavo ciondolando per quella specie di grande cortile di sabbia quando riconobbi una voce “ Sauro, fratello, sei te” . Un Saharawi con il Litham blu in testa mi si avvicinava a braccia larghe.

Era Bendir, l’autista che lo scorso anno ci aveva accompagnato nel nostro viaggio, un uomo di una simpatia straordinaria ma anche arguto e veloce , in grado di leggere ogni nostro pensiero.

“Ciao Bendir, speravo tanto di lavorare insieme anche quest’anno, ma mi hanno detto che eri già stato assegnato ad un altro gruppo”

“ Sapevo del vostro arrivo ma sai bene che certe cose sono difficile da organizzare per noi, comunque sono rientrato stanotte perché volevo incontrarti, vieni, ti preparo un thè nella mia stanza”

Che piacere averlo incontrato, era il miglior modo per salutare quel posto che avessi immaginato.

La piccola stanza era piena di abiti e fogli seminati ovunque, un tavolino, una sedia ed una piccola branda. Sotto la finestra tutto l’occorrente per preparare il thè, anzi i tre thè che avremmo sorseggiato insieme, secondo la tradizione dei popoli del deserto .

Mi sdraiai sul piccolo tappeto rosso, accesi una sigaretta ed inizia ad osservare Bendir che iniziava il suoi rito con assoluta serietà e cura, in un silenzio che avrebbe accompagnato quasi tutto l’incontro.

Al terzo bicchiere, quello soave come la morte , cominciò a parlare guardandomi negli occhi e stringendo in mano qualcosa che non riuscivo a vedere.

“Ti ricordi che ti ho raccontato che ero solo un bambino quando attraversammo il deserto a piedi, con la mia famiglia per arrivare sino a qui mentre i marocchini ci bombardavano con il napal, la fame, il freddo, il vaiolo ed il colera che ci decimavano, la guerra prima e poi la pace con la speranza che il mondo ci avrebbe sostenuto nella nostra causa, mentre gli anni passavano.

Quando a venti anni presi il brevetto da pilota militare nell’esercito algerino ero certo che a breve sarei volato sopra la mia terra e magari ci sarei atterrato con tutta la mia famiglia. Ma gli anni passano e nulla cambia se non la nostra forza che e sempre più incerta, mentre rabbia e delusione crescono tra i più giovani.

In mezzo a tutto questo ho osservato quello che avete fatto per noi e come la gente continua a parlarne aspettando il vostro ritorno. Se un giorno sarà necessario puoi contare su di me per qualunque cosa perché quel poco che abbiamo e di chi ci ha aiutato e rispettato.”

Fu allora che allungò la sua mano verso di me , girò il palmo verso l’alto e l’aprì lentamente.

“Mentre lascavamo la nostra casa mio padre mi abbracciò stringendomi forte, io non sapevo che non lo avrei più visto, ma lui sì. Mi consegnò due conchiglie bellissime che aveva raccolto nella spiaggia bianca di Dakla. Una delle due è questa e voglio darla a te ma ad una condizione – i miei occhi pieni di emozione rispondevano per me – un giorno le riconsegneremo insieme al suo mare, insciallah!”

Non son sicuro di esser riuscito a dire qualcosa, a volte penso di sì , ma è più probabile che dopo un abbraccio fortissimo abbia lasciato parlare solo il silenzio che ci avvolse in quegli ultimi momenti insieme.

Quando rientrarono gli altri non feci parole di quello che mi era successo ma iniziai a coordinare il gruppo per l’immediata partenza per Tindouf.

Prima di salire in aereo ad Algeri, per l’imbarco per Roma, avremmo passato almeno 7 perquisizioni in cui venivano cercati anche piccoli fossili e sabbia e quindi fatti lasciare a terra. Dopo i primi anni in cui avevamo raccolto nel deserto piccole pietre bellissime ora gli algerini impedivano di portare qualsiasi cosa non fosse stata acquistata nei negozi dell’aereoporto.

Ad ogni controllo cambiavo posto alla mia conchiglia : dentro le scarpe, le mutande, il cappello, nel pugno della mano.

Alla scaletta dell’aereo l’avevo in una tasca su un braccio del giubbotto oramai sicuro di avercela fatta. Il giovane militare mi aprì lo zaino senza trovare niente di interessante e allora mi appoggiò una mano sulla spalla come per indirizzarmi alla scaletta.

L’aveva trovata!!!

Gli spiegai, lo supplicai, gli offrì addirittura dei soldi rischiando l’incredibile.

Oramai era tra le sue mani e mi stava bruscamente facendo salire in aereo.

Nessuno degli altri sapeva quello che stava succedendo e anche dopo non lo ho mai raccontato.

La tristezza e la delusione mi accompagnarono per mesi sino a quando, un giorno di sole bellissimo, guardando dei fossili in una caraffa di vetro, immersi nella sabbia che avevo preso in uno dei primi viaggi in Sahara, notai una pietra, piccola, abbastanza normale, quasi brutta.

La presi e la annusai socchiudendo gli occhi. Non sapeva di mare.

Ogni pietra ha una storia da raccontare o meglio, che noi gli chiediamo di raccontare, così avrei chiesto a quella piccola pietra di Dakla di raccontare la storia di Bendir e della sua conchiglia, a patto di venire un giorno con me in una spiaggia bianca, di una terra finalmente libera, ad ascoltare la storia infinita del popolo Saharawi.

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