Pubblicato: ven, 30 Mag , 2014

Stato-mafia, ex ministro Scotti: «Nel ’92 lanciai l’allarme attentati»

Al processo sulla Trattativa, l’allora responsabile dell’Interno ha dichiarato che venne diramata una circolare che preannunciava un piano destabilizzante da parte di Cosa nostra, da attuare tramite le stragi. «Ma Andreotti la bollò come una patacca»

300x01357830467477Stato_mafia_-_Mancino_Dell_utri_Riina_BruscaIl 20 marzo 1992 l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti lanciò l’allarme di un pericolo attentati da parte di Cosa nostra. Lo fece attraverso la circolare che oggi è stata al centro della deposizione dell’ex politico democristiano, chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-mafia, in corso davanti alla Corte d’assise di Palermo, e in cui si legge: «Perché nascondere ai cittadini che siamo di fronte a un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata, la verità. Io me ne assumo tutta intera la responsabilità».

Erano trascorsi appena otto giorni dall’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima e mancavano ancora due mesi alla strage di Capaci. Eppure Scotti lanciava già un concreto allarme di fronte alla Commissione parlamentare e il 16 marzo, insieme all’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, segnalò anche alle prefetture il rischio di un imminente piano destabilizzante. «Da qualche tempo – scriveva lo stesso Parisi – è in atto una vasta campagna intossicatoria e disinformativa, che avvalendosi di messaggi intimidatori, telefonate anonime, lettere apocrife e fondando su azioni violente, tende a minare la credibilità delle pubbliche istituzioni e generare diffusa apprensione. È stata annunciata nel periodo marzo-luglio una campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi, Pds, nonché sequestro e omicidio futuro presidente della Repubblica, quadro strategia comprendente altri episodi stragisti». Nella circolare si fa riferimento al presidente del Consiglio Giulio Andreotti e ai ministri Carlo Vizzini e Calogero Mannino. Le segnalazioni, disse Scotti, erano arrivate da una fonte confidenziale, identificata poi in Elio Ciolini, «sospetto emissario di gruppi criminali operanti a livello internazionale, noto alle cronache giudiziarie per la vicenda del depistaggio della strage della stazione di Bologna», e all’epoca detenuto. La nota diramata alle prefetture sarebbe dovuta rimanere segreta. Invece fu pubblicata sul Corriere della Sera, creando così non poco “scompiglio politico”, tanto che Scotti dovette riferirne in Parlamento, mettendo la Commissione nella condizione di «dover scegliere se andare allo scontro frontale con la criminalità organizzata o convivere con essa».

Nonostante l’allora responsabile del Viminale delineò con un paio di mesi d’anticipo ciò che sarebbe accaduto nel nostro Paese, anticipando scenari di sangue e possibili «cadaveri eccellenti», l’allarme rimase volutamente inascoltato. Andreotti lo bollò addirittura come una «patacca», mentre il ministro veniva sempre più isolato persino all’interno del suo stesso schieramento politico. È questa, almeno, la percezione di Scotti, che non avverte nessuna manifestazione di solidarietà nemmeno da parte dei vertici istituzionali: «L’isolamento lo si percepisce attraverso il silenzio o attraverso l’attacco. Il silenzio è molto più pesante, perché all’attacco si può almeno rispondere».

In aula vengono citati anche gli articoli di giornale dell’epoca, che lanciavano nero su bianco il grido di Scotti. Come l’intervista rilasciata al giornalista de La Repubblica Giuseppe D’Avanzo e pubblicata il 21 giugno 1992. Siamo a meno di una settimana dalla formazione del nuovo Governo. «Sono convinto – diceva l’ex ministro – e lo vado ripetendo da mesi, che il calvario non è finito, che la mafia colpirà ancora e colpirà ancora più in alto, tanto più in alto quanto più efficace diventerà l’azione dello Stato. Non tutti vogliono capirlo. C’è chi fa orecchie da mercante, chi ha la tentazione di sottovalutare il mio allarme, chi colpevolmente sussurra che la mia apprensione è soltanto allarmismo che nasconde voglia di potere. Bene, a questi signori ho già detto che io non andrò più a Palermo a raccogliere insulti e monetine per loro e al loro posto. Nessuno può pensare, dinnanzi alla guerra che bisogna scatenare contro la mafia, di lavarsi pilatescamente le mani. Sia ben chiaro, soltanto con un esecutivo forte, legittimato nel tempo e nei consensi, può proseguire il lavoro già iniziato da me e da Martelli. È una politica che va confermata e una legittimazione di quella politica passa attraverso la riconferma di entrambi». La riconferma, però, non avverrà. Ed è proprio su quest’altro aspetto che il pool dei magistrati della Procura di Palermo sta cercando di fare luce. Sul perché dell’insediamento di Nicola Mancino agli Interni al posto di Scotti e, al posto di Claudio Martelli al Ministero della Giustizia, verrà preferito Giovanni Conso. Figure entrambe ritenute «colpevoli di una grave e consapevole reticenza» dal Gip Morosini: il primo imputato per falsa testimonianza, il secondo indagato per false dichiarazioni al pm.

Rispondendo alle domande dei pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, Scotti ha ripercorso anche le tappe che portarono ai provvedimenti antimafia nel periodo in cui era ministro dell’Interno (16 ottobre 1990 – 28 giugno 1992): dalla legislazione sui pentiti a quella sul riciclaggio e la confisca dei beni, fino al decreto sul 41 bis, approvato definitivamente soltanto nell’agosto del ’92, dopo, quindi, la strage di via D’Amelio. È qua che si inserisce la figura dell’onorevole Giuseppe Gargani, appartenente alla cosiddetta “ala sinistra” della Democrazia cristiana (la stessa di Mannino e Mancino), all’epoca dei fatti membro della Commissione giustizia alla Camera. Gargani “consigliò” a Scotti di non insistere sull’iter di ratifica del decreto 8 giugno 1992, mentre questi premeva sulla sua accelerazione. Le perplessità stavano nell’impianto complessivo di quel decreto: «Mi parlò della necessità di apportare delle correzioni». Per l’ex ministro, quello fu l’inizio della fine della lotta alla mafia. O, pare più evidente, con la mancata proroga di 334 provvedimenti di 41 bis per altrettanti boss mafiosi, fu sancito il patto diabolico tra l’anti-Stato e Cosa nostra. Quella scellerata trattativa per la quale Scotti rappresentava un ostacolo e per questo eliminato politicamente, e a cui Paolo Borsellino si oppose con ben più ferma determinazione, tanto che lo Stato-mafia dovette accelerare (questa volta sì che preferirono correre) sulla sua uccisione, avvenuta appena 57 giorni dopo da quella dell’amico fraterno Giovanni Falcone.

 

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