Pubblicato: gio, 29 Mag , 2014

Pm Gozzo al pentito Di Matteo: «È l’ora di dire la verità sulla strage di via D’amelio»

Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: «Feci a Borsellino i nomi di D’Antona e Contrada»

BorsellinoNel terzo giorno di trasferta all’aula bunker di Rebibbia per il processo Borsellino Quater, è stato ascoltato Mario Santo Di Matteo, padre di Giuseppe, il bambino rapito a 11 anni e, dopo due anni di prigionia, sciolto in un bidone di acido da Giovanni Brusca per convincere il padre a ritrattare le rivelazioni che fece sulla strage di Capaci. L’ex killer di Altofonte non partecipò materialmente all’esecuzione dell’attentato contro il giudice Giovanni Falcone, ma prese parte alle sue fasi preparatorie, come ribadito in aula. Tra metà aprile e i primi di maggio 1992, Santino “Mezzanasca” ospitò nella sua casa di campagna la prima riunione operativa per le “prove generali” in vista del 23 maggio. Non solo. Fu lui a fornire ai fratelli Graviano i telecomandi che sarebbero stati poi utilizzati per far saltare in aria il magistrato, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta.

«Un paio di telecomandi li aveva comprati Brusca in un negozio di giocattoli, che si trovava in una traversa di via Maqueda, prima dei Quattro Canti. – ha raccontato il collaboratore di giustizia – Altri due, invece, li portò Pietro Rampulla (l’artificiere esponente della famiglia catanese Santapaola, Ndr). Facemmo più prove e simulazioni dell’agguato. Questi telecomandi li avevo io in custodia e qualche tempo dopo venne Antonino Gioé a chiedermi questi telecomandi su ordine di Brusca. E li consegnammo ai Graviano. Siamo prima della strage di via D’Amelio, ma io non sapevo che servivano per quello». Ed è proprio sull’eventuale coinvolgimento di Santino Di Matteo nell’uccisione del giudice Paolo Borsellino, che i pm della Procura di Caltanissetta hanno concentrato buona parte dell’esame. Sono forti e legittimi i dubbi che il pentito non abbia ancora rivelato tutto quello che è a sua conoscenza in merito all’attentato in cui, il 19 luglio del ’92, persero la vita anche cinque agenti di scorta. «Questo è il momento di dire la verità, se ce n’è un’altra, sulla strage di via D’Amelio. – gli urla il pm Nico Gozzo – È possibile che lei abbia più paura degli esponenti delle istituzioni infiltrati nella mafia, che dei mafiosi stessi?».

A sostegno della concreta supposizione c’è l’intercettazione di un drammatico colloquio avvenuto il 14 dicembre 1993 tra il pentito e la moglie Francesca Castellese, presso i locali della Dia, poche settimane dopo il sequestro del figlio. In quella conversazione, è la stessa Castellese a parlare di «qualcuno infiltrato nella mafia» in riferimento «alla strage di Borsellino». È una madre disperata per la sorte del proprio bambino e cerca di convincere il marito a ritrattare. Alcuni giorni prima i rapitori gli avevano fatto recapitare un biglietto con su scritto: “Tappaci a vucca!” e in effetti, per diversi mesi, Di Matteo non rese più interrogatori, salvo poi decidere di non piegarsi al ricatto mafioso e tornare sulla strada della collaborazione con la giustizia. Ma se fu il primo a parlare della strage di Capaci, indicando mandanti ed esecutori, su quella di via D’Amelio si è sempre trincerato dietro «l’errore». Anche ieri. «Non può essere così – ha detto – io ho sempre detto tutto. Io se sapevo altre cose su Borsellino le avrei dette. Caso mai su Capaci volevano che stavo zitto. Si parlava così di mio figlio. Mia moglie era preoccupata. Si parlava di poliziotti che potevano interessarsi per cercare mio figlio. Non c’è assolutamente altro». Eppure c’è quel dialogo con la moglie che lascia poco spazio ad altre interpretazioni. E c’è anche un intervista rilasciata il 23 novembre del 2008 al TG1, in cui diceva che «avrebbe fatto presto i nomi dei killer della strage di via D’Amelio». Ancora prima, c’è un verbale del 17 novembre 1997 in cui raccontava di aver appreso diversi dettagli a dir poco scottanti da un altro pentito, Balduccio Di Maggio. Tra questi, anche la mancata perquisizione del covo di Riina da parte dei carabinieri, per consentire ai familiari del boss di “ripulirlo” e la sparizione di documenti compromettenti e relativi alla trattativa Stato-mafia. Fece mettere nero su bianco anche i nomi di diversi capimafia e dei lori rispettivi ruoli nella strage del 19 luglio, salvo poi ritrattare nel 2005: i carabinieri non c’entravano nulla, fu Bagarella insieme ai suoi uomini a far sparire le carte. Alla domanda se abbia ricevuto in questi anni nuove minacce, la risposta di Di Matteo è stato un secco e categorico No.

Congedato il teste, è stata la volta di Leonardo Messina. Ex uomo di fiducia di Giuseppe Madonia ha raccontato alla Corte d’assise di Caltanissetta della riunione interprovinciale che si tenne ad Enna, durante la quale «si sviluppò una nuova strategia». L’uccisione di Falcone fu deliberata in quell’incontro. Come quella di Gaspare Mutolo. «Faceva parte dei perdenti e poi andava dicendo a tutti che era stato lui ad insegnare a Liggio a dipingere e questo ai corleonesi non piacque. A volte si uccideva anche per una barzelletta». Si parlò anche della ricerca di nuovi contatti politici. «Mi informarono anche che la Lega era nostra alleata e che Bossi era un “un pupo”. Mi si spiegò che l’uomo forte della Lega era Miglio, che era in mano ad Andreotti». Messina, però, non partecipò a quell’incontro, ma tutto gli venne riferito da un altro uomo d’onore e suo amico, Borino Miccichè. «Nessuno si oppose – ha raccontato – si decise anche di usare la sigla terroristica Falange Armata. Era una nuova strategia politica della Commissione a cui nessuno apparentemente si oppose, anche se in realtà c’erano due correnti a quel punto. Un’ala stragista e una più moderata. Queste cose le dissi a Borsellino quando iniziai a collaborare». Il pentito si incontrò col giudice la sera prima dell’attentato. «Gli dissi anche che sapevo che Mutolo collaborava. Lo appresi dagli ambienti della caserma in cui mi trovavo. Gli parlai pure dei contatti tra Cosa nostra ed esponenti dei Servizi segreti. Noi sapevamo che Contrada era vicino. Ma lo era anche Ignazio D’Antona, dirigente della Squadra Mobile di Palermo. Questi nomi li ho fatti al dottor Borsellino nel nostro colloquio informale. Ma gli parlai anche di vigili urbani, pretori, avvocati, onorevoli. Tutti a braccetto con la mafia».

Ultimo teste ad essere stato ascoltato è Angelo Fontana. Collaboratore dai «ripetuti cambi di versione sul fallito attentato all’Addaura», l’ex boss dell’Acquasanta ha ribadito che il cugino Vincenzo Galatolo gli riferì che «Gaetano Scotto andava a Monte Pellegrino (al Castello Utveggio, dove ha sede il Cerisdi, Ndr) per incontrare alcune persone dei Servizi. Anche se non ho mai approfondito. A me mi parlavano di amici, delle persone». Scotto, inizialmente accusato dal falso pentito Scarantino di aver partecipato alla preparazione della strage di via D’Amelio, fu poi scagionato, ma sul cui conto rimangono ancora diversi aspetti da chiarire. Come quelle due telefonate (il 6 febbraio e il 2 marzo 1992) fatte al Cerisdi e scoperte da Gioacchino Genchi. Ciò che è certo è che la figura di Scotto appare e scompare tanto a fianco dei killer di Cosa nostra, quanto a personaggi in divisa. Dall’Addaura a via D’Amelio.

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