Pubblicato: mar, 1 Apr , 2014

Mafia, Ingroia: «Borsellino non mi parlò mai di trattativa»

 La deposizione dell’ex pm al processo sulla strage di via D’Amelio in corso a Caltanissetta, preceduta dalle scuse di Vincenzo Scarantino alle famiglie delle vittime
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Antonio Ingroia

«Non ho mai sentito il giudice Paolo Borsellino parlare di trattativa». Lo ha detto l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, deponendo al processo per la strage di via D’Amelio, in corso davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta. La testimonianza ricostruisce il 1992, l’annus horribilis per la storia del nostro Paese, ricordato soprattutto per le bombe a Capaci e in via D’Amelio, per gli omicidi “eccellenti” (come quello del deputato democristiano Salvo Lima) e per i veleni in Procura.

«Dobbiamo calarci in quel momento, subito dopo la morte di Giovanni Falcone – aggiunge Ingroia –. Dopo la strage di Capaci, Borsellino era a un livello di intransigenza massima. Tanto è vero che una volta si espresse, in una riunione ristretta, che venissero adottate misure eccezionali, se non addirittura introduzione di pene capitali. Se qualcuno avesse accennato a un ammorbidimento della legislazione antimafia, sarebbe saltato in aria».

L’ex magistrato, che ha ricordato di quando iniziò a lavorare fianco a fianco con Borsellino alla Procura di Marsala, ha parlato anche del periodo palermitano del magistrato ucciso e dei contrasti che questi aveva con l’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco. «Quando Borsellino iniziò a lavorare alla Procura di Palermo, il suo primo interesse fu quello di occuparsi dell’omicidio di Salvo Lima, perché veniva considerato come un fatto enorme, nuovo, imprevisto. Falcone quel delitto lo considerò come qualcosa di dirompente, l’inizio di una catena di fatti omicidiari all’interno di Cosa nostra. Però Giammanco era contrario alla candidatura avanzata da Borsellino, che si era reso per l’appunto disponibile a seguire le indagini per l’uccisione di Lima. Questi era considerato – ha continuato l’ex magistrato – uno snodo delle relazioni fra mafia e politica e la sua morte significava che si era rotto qualcosa e che potesse partire una strategia dai contorni ancora poco noti. Questo me lo disse Borsellino, ma era una considerazione di Falcone».

Dei forti contrasti con Giammanco ne è prova che Borsellino seppe soltanto per puro caso di un attentato che si stava preparando nei suoi confronti, così come di quello nei confronti dell’ex ministro della Difesa, nonché uno dei massimi esponenti del Partito socialista, Salvo Andò e dell’allora pm Antonio Di Pietro. «Fu Andò a rivelarglielo – afferma Ingroia –. I due si incontrarono per puro caso ina aeroporto e il ministro manifestò a Borsellino tutta la sua solidarietà. Quando Borsellino tornò al Palazzo di Giustizia, ebbe uno scontro durissimo con il procuratore Giammanco».

In quello stesso periodo Gaspare Mutolo aveva manifestato l’intenzione di iniziare a collaborare con la giustizia. «Il primo a sentirlo fu il procuratore Vigna. Mutolo riferì subito a Vigna che voleva essere sentito soltanto da Borsellino, ma Giammanco non ne fece parola con lui, che per questo s’arrabbiò con il capo della Procura che aveva provveduto ad assegnare il fascicolo ad Aliquò. Solo successivamente, Borsellino chiese e ottenne di seguire Mutolo ma insieme al suo collega della Procura palermitana. Per la strage di Capaci invece, Borsellino aveva sempre detto che si sarebbe seduto davanti ai magistrati di Caltanissetta solo nel momento in cui avesse avuto delle certezze. Fino a quel momento non l’avrebbe fatto».

Nei 57 giorni che separano l’attentato di Capaci alla strage di via D’Amelio, in cui fu ucciso insieme a cinque agenti di scorta, il giudice Borsellino, ha rivelato oggi Ingroia, «si era chiuso completamente in se stesso». «Fino a prima della morte di Falcone, riferiva spesso quello che faceva. A volte parlava anche del contenuto di alcuni interrogatori. Nell’ultimo periodo si era invece chiuso. E questo viene fuori in modo plastico dal fatto che abbandonò l’abitudine di tenere la porta spalancata del suo ufficio».

«In quel periodo – ha aggiunto in conclusione della deposizione – può essere che avesse deciso di blindare le informazioni che erano a sua conoscenza e forse per questo iniziò a usare un diario, per lasciare qualche traccia scritta».

Prima che Ingroia iniziasse a rispondere alle domande dei pm di Caltanissetta e degli avvocati della Difesa e delle parti civili, Vincenzo Scarantino ha voluto rilasciare alcune dichiarazioni spontanee.

Scarantino, imputato per il depistaggio dell’inchiesta che ha portato alla condanna all’ergastolo di otto innocenti, ha chiesto scusa ai familiari delle vittime della strage di via D’Amelio. «Tante volte ho cercato di dire la verità. Ho detto che quelli che mi hanno condotto a mentire sono stati Arnaldo La Barbera, Mario Bo, Giampiero Valenti e Mimmo Militello e mi spiace perché ogni volta devo essere giudicato come il carnefice».

«Ho sempre detto che della strage non so niente – ha aggiunto – e che mi hanno indotto a fare le dichiarazioni. Finché avrò ultimo respiro, cercherò di difendermi per togliere ogni dubbio della mostruosità che mi hanno addossato. Mi hanno distrutto la vita, sono 22 anni che non vivo più. Sono chiuso in isolamento e spero in Dio che esca la verità. Sono stato picchiato davanti ai miei figli e mia moglie, mi hanno anche puntato la pistola addosso».

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