Pubblicato: ven, 2 Feb , 2018

Ma c’è coscienza nella società civile e in quella politica, del pericolo mafioso?

Come avvenimenti che dovrebbero costituire la maggiore preoccupazione ancora una volta saranno ininfluenti nel giudizio degli elettori e dei candidati.

 

Il luogo possiamo dirlo tradizionale: il circolo Arci di Ponte alle Forche a San Giovanni Valdarno. Un quartiere popolare, un quartiere che si può definire “rosso”, ma anche quello della sede della “Castelnuovese”, la cooperativa fallita e con tutte le ombre di una stagione di deterioramento. L’occasione è una cena di finanziamento in Valdarno aretino della nuova, ennesima creatura della sinistra in cerca di un’identità: Liberi e Uguali.

Durante i preparativi per la serata i discorsi dei partecipanti sono i medesimi ormai da decenni: il lavoro e l’art.18, i diritti dei lavoratori e la classe media, le tasse e l’evasione, anche una spruzzata di anticlericalismo per non scordare. La destra è avversaria, ma i peggiori nemici sono Renzi e il Pd. Quello di Leu è certo un programma di buone intenzioni, ma questa sinistra non riesce a scrollarsi di dosso un’aria d’antan, di compromissione con l’establishment e D’Alema sembra esser messo a ricordarlo, ha perso il contatto coi movimenti, come ad esempio quello per l’acqua pubblica, non capisce cosa si potrebbe muovere, di innovativo, dal mondo cattolico, non convince i giovani, neanche quelli migliori. E non sento accenni  veramente allarmati sulle cause del montare nella società della nuova violenza fascista, eppure non si dovrebbe mai scordare che questo è il Paese delle stragi di Stato impunite e delle “caserme argentine” durante il G8 di Genova, quando al comando vi era la destra berlusconiana e finiana. Non sento il rifiuto per candidati della destra che in perfetto linguaggio nazista dicono che “non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano, dobbiamo decidere se la nostra razza bianca deve continuare ad esistere o deve essere cancellata”, non lo sento perché il peccato mortale è il candidato del pd in quanto renziano. E non sento la preoccupazione per il pericolo mafioso. Eppure sono di questi giorni le conclusioni dei pubblici ministeri della Procura di Palermo che hanno indagato sulle stragi mafiose tra il 1992 e il 1994, Capaci, D’Amelio, gli attentati nel continente, quello fallito allo stadio Olimpico di Roma e la  trattativa Stato-mafia che ne seguì.

Uomini soli questi, ancora una volta. “Definiti eversivi e da nessuno difesi”. Hanno chiesto la condanna dei vertici del Ros dei Carabinieri: 15 anni per Mario Mori, al tempo vicecomandante e che in seguito ha guidato anche il servizio segreto civile, e 12 anni per Antonio Subranni, al tempo comandante dei Ros, colui che cercò di far passare Peppino Impastato per un terrorista invece che una vittima della mafia, e 12 anni per Giuseppe De Donno. Hanno chiesto 6 anni per Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, al tempo dei fatti ministro dell’Interno. Hanno chiesto 16 anni per Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, l’uomo che guidò i corleonesi dopo l’arresto del capo, per i magistrati colui che dirottò il sostegno di Cosa Nostra sulla neonata Forza Italia. Hanno chiesto 12 anni per Marcello Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia, perché nella trattativa avrebbe svolto il ruolo di mediatore tra le richieste dei boss mafiosi e il governo Berlusconi nel 1994.

Il processo ha riscritto la storia della nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, durante la quale si è destabilizzato il Paese. Dopo l’omicidio di Giovanni Falcone, nel giugno ’92, i carabinieri agganciarono Vito Ciancimino con l’obiettivo di un’interlocuzione con la Cupola mafiosa per far cessare la strategia stragista. Il giudice Paolo Borsellino, molto probabilmente, venne eliminato perché si era messo di traverso alla trattativa. E Dell’Utri chiuse il patto con i boss ottenendo sostegno per Forza Italia. Fatto sta che nel 1994 il partito di Berlusconi e Dell’Utri conquistò tutti i collegi dell’isola, nel famoso 61 a 0, un plebiscito, 21% il dato nazionale, 34% quello siciliano.

“Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconi alla carica di presidente del Consiglio”

“La Cassazione ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto era paritario. Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra… risulta provato che gli incontri tra esponenti mafiosi e Marcello Dell’Utri siano stati plurimi e ripetuti nel tempo, da collocare prima delle elezioni del ’94 che dopo le politiche. Nel corso di questi incontri sia Graviano che Mangano hanno sollecitato Dell’Utri a intervenire a favore di Cosa nostra. In quel momento storico e politico è il linguaggio della violenza quello prediletto dai mafiosi che sulla cultura della violenza hanno costruito un sistema di potere, la loro carriera personale. E’ solo con l’uso di questo linguaggio che i capi di Cosa nostra, e in particolare uomini sanguinari come Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, pensano di potere realizzare i loro obiettivi con l’uso della violenza. E Dell’Utri non si è sottratto e si è fatto interprete degli interessi di Cosa nostra”.

Gli attentati alla Standa di Berlusconi in Sicilia furono i segnali mandati da Cosa nostra che Dell’Utri recapitò al presidente del Consiglio. Venne preparato, a favore dei boss mafiosi il “decreto salva-ladri” che avrebbe ristretto i casi di custodia cautelare. Ma non fu approvato.

Nel corso di una riunione di Cosa nostra nel ’92, come ha ricordato il pentito Salvatore Cancemi, “Riina si prese la responsabilità di eliminare Paolo Borsellino” e aggiunse che “andava coltivato il rapporto con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri”. Spiegano i pubblici ministeri: “Non è un racconto de relato ma proviene dalla voce di un autorevole capomafia”, è il capo dei capi che parla.

Totò Riina venne arrestato nel gennaio del 1993 e l’abitazione nel suo quartiere di Palermo dove soggiornava non fu perquisita e fu “ripulita” da mano sconosciuta. Alcuni anni dopo, intercettato in carcere il boss dice che Dell’Utri si è dimostrato affidabile, mentre Berlusconi uno che non mantiene le promesse. Anche Graviano, intercettato, parla di Berlusconi. Tali intercettazioni hanno fatto riaprire le indagini su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi.

Potrebbe essere che la ricostruzione dei magistrati della Procura di Palermo non si tramuti in una condanna per gli imputati, e per l’allegra maggioranza allora nulla sarà stato. Ma per coloro che hanno una coscienza civica resterà valida e ineludibile la tesi che vi è stato e c’è uno Stato che è antistato mafioso e fascista e c’è una parte di società civile ignorante delle ferite della nostra storia ancora non rimarginate; perché a ciò si sono opposti, servitori dello Stato di diritto e cittadini sono stati lasciati soli a combatterli e quindi sono stati selvaggiamente uccisi. Riferimenti politici di quell’antistato che fu stragista si ripropongono ancora e ancora con buone possibilità di successo. La sinistra si rende conto di questa cosa o l’unica sua preoccupazione è di distinguersi in quell’area politica che sarà sconfitta?

Fulvio Turtulici

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