Pubblicato: mar, 14 Nov , 2017

impertinenteMente

Tutto inizia (e finisce?) in Medio Oriente.

     Gas e petrolio, terra e risorse idriche sono al cuore della questione mediorientale. Regione strategica per gli equilibri mondiali, collante tra i tre continenti, bagnata dai mari più interessanti per i commerci. Da qui oggi proviene la maggior parte del petrolio del pianeta.

Il territorio è conteso sia da stati esterni, sia da potenze regionali interne; incide inevitabilmente la passata ed attuale presenza/ingerenza dell’Occidente. Dall’espansione coloniale europea all’egemonia neoliberista americana, teatro di scontri durante le Crociate, la colonizzazione inglese, i conflitti mondiali, la guerra fredda ed a seguire tutte le vicende moderne.

Stando all’elaborazione dell’Osservatorio permanente sulle armi (Opal), dal 1990 ad oggi le principali autorizzazioni all’export di armamenti continuano ad aumentare, diretti in Medio Oriente e Nord Africa. Lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), in uno studio basato sui dati delle sole esportazioni legali (autorizzate dai governi), dimostra che il mercato globale delle armi sta conoscendo una stagione più che florida. Tra i maggiori importatori vi sono le monarchie arabe come Arabia Saudita, Qatar, Emirati e Kuwait.

In una continua escalation di scontri tra Stati si sono sviluppate lotte intestine, che si intersecano aumentando vertiginosamente le tensioni.

La situazione del Pakistan è tra quelle di maggior interesse mondiale. Già instabile politicamente, il Paese si trova schierato su più fronti: contro India (soprattutto per la contesa del Kashmir), Iran (per la regione del Belucistan, oltre agli scontri con i talebani antisoviet) e Afghanistan (che non riconosce i confini, Durand Line). Nei territori pakistani, inoltre, continua a vivere un feudalesimo spinto, dove domina di fatto il sistema dei clan (Jiirgas), intrisi dall’influenza talebana. Questo viene amplificato soprattutto nelle regioni più tribali, proprio quelle nord-occidentali vicine al confine con l’Afghanistan, dove si trovano i santuari di Al-Qāʿida.

Al-Qāʿida è originariamente il nome di un data-base del governo USA, con i nomi di migliaia di mujāhidīn arruolati dalla CIA per combattere contro i sovietici in Afghanistan, tra cui militò Bin Laden (Cook, dichiarazione alla Camera dei Comuni, e intervista in The Guardian 2005). Ingegnere, economo nonché laureato anche in pubblica amministrazione, il saudita Bin Laden aveva un’azienda familiare ultramiliardaria di edilizia ed infrastrutture. Le due generazioni dei Bush, senior e jr, hanno sempre intrattenuto un fitto scambio di affari con il clan dei Bin Laden, tra petrolio ed armamenti, azioni militari e operazioni di realpolitik (Micheal Moore, Gli affari di Bush e Osama).

Il crollo delle torri gemelle a NYCity l’11 settembre arrivò dopo anni di finanziamenti americani ai gruppi ribelli in Afghanistan e Pakistan, per rovesciare i governi locali. Epilogo voluto dallo stesso governo americano, o ribellione dei suoi mujāhidīn, tant’è che la nuova creatura emergente (oggi ISIS?) sembra volutamente più forte per spazzare via la precedente. Al-Qāʿida rimane movimento paramilitare con l’esaltazione degli ideali del fondamentalismo islamico più oltranzista (di ispirazione wahhabita), con guerriglieri che mirano anche alla presa dei territori tra Afghanistan e Pakistan. Da questo si sono distaccati al-Nusra, gruppo armato per la guerra civile siriana; ed il ramo dell’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria), teoricamente volto a conseguire un califfato universale dove tutti i musulmani siano soggetti alle leggi di Dio (sharia).

Iraq eSiria sono ormai un unico campo di battaglia, in una guerra civile senza tregua, con milizie islamiste in contrasto tra loro (sciite o sunnite), l’esercito di Assad e quello iracheno. Usa, Gran Bretagna, Francia e Turchia incalzano per l’uscita di scena del presidente siriano. Il governo di Damasco riceve sostegno finanziario, politico e militare principalmente da Russia, Iran, Corea del Nord, Venezuela e Iraq. I più importanti Stati sunniti del Medio Oriente -tra cui Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Turchia- appoggiano economicamente e militarmente le forze ribelli, incluse le fazioni più integraliste. Tra gli Stati del Golfo finanziatori vi sono anche quelli alleati con gli USA. Il vicepresidente degli Stati Uniti del 2015, Joe Biden dichiarò che “….(gli alleati) hanno fatto piovere centinaia di  milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi nelle mani di chiunque fosse in grado di combattere contro Assad, così i rifornimenti sono andati a al-Nusra, al-Qaeda ed agli elementi estremisti della Jihad provenienti da altre parti del mondo” (discorso all’Università di Harvard). Attualmente, tra la Siria nord-orientale e l’Iraq occidentale vi è una forte presa di potere dell’ISIS. Le sue risorse ammontano a ben oltre due miliardi di dollari ed è il gruppo jihadista più ricco del mondo con una sua banca, superando anche Al-Qāʿida (dichiarazione di Abu Saad Al Ansari al quotidiano Al Arabi; How Isis details its brutality, Financial Times 2014; The surreal infographics ISIS is producing, Vox 2014). Alcuni proventi gli arrivano dalle operazioni nella Siria orientale, dove ha occupato campi petroliferi e contrabbanda materiali grezzi; dal traffico di droga da Afghanistan (in particolare eroina) verso i paesi Europei, saccheggi e rapimenti. “Isis è sempre più forte perché i falchi nel nostro partito hanno fornito indiscriminatamente armi agli estremisti. Volevano far fuori Assad e bombardare la Siria. Sono stati loro a creare questa gente” (senatore Rand Paul, a Morning Joe su Msnbc, vedi : http://www.msnbc.com/morning-joe/watch/rand-paul-im-asking-republicans-hard-questions-452151363572). A distanza di anni, sembrerebbe emergere che la Dia (Defense Intelligence Agency, servizi segreti americani) avesse previsto e convalidato la creazione di uno Stato islamico per eliminare anche al-Assad, creando apposta un movimento per un principato salafita (vedi doc. http://www.judicialwatch.org/wp-content/uploads/2015/05/Pg.-291-Pgs.-287-293-JW-v-DOD-and-State-14-812-DOD-Release-2015-04-10-final-version11.pdf). Fini geopolitici inconfessabili.

I conflitti si riverberano anche nei Paesi contigui. In Kurdistan è pregnante la presenza di forze democratiche che combattono contro l’ISIS. La Libia è anch’essa un campo di battaglia per i militanti integralisti, che proprio nel paese nordafricano trovano ostaggi tra i lavoratori delle molte aziende straniere ivi stanziate. L’Iran è uno dei tre paesi del Medio Oriente a maggioranza sciita (con Iraq e Bahrein), alleato da oltre trent’anni con la Siria. Entrambi sostengono il movimento Hezbollah, gruppo di fondamentalisti islamici sciiti, il cui ramo militare opera nel sud del Libano ed ha come obiettivo la distruzione di Israele. Hezbollah ed Iran sono intervenuti a lato della Siria nella guerra che la coinvolge, mandando uomini e armi. Alleanza che si rispecchia anche nei continui attriti con gli USA, che per decenni hanno danneggiato le esportazioni iraniane verso Asia-Pacifico, tramite sanzioni e veti. Inoltre, l’Iran si trova in competizione con l’Arabia Saudita, che per la supremazia del Golfo Persico ha strumentalizzato a suo favore l’alleanza con gli USA. Di contro, Pechino ha sempre sostenuto gli accordi commerciali con Teheran, facendone così sopravvivere l’economia. Nel gennaio 2016 l’Iran ha accolto il Presidente cinese Xi Jinping, le parti hanno firmato 18 accordi di cooperazione, che dovrebbero portare il loro fatturato ad oltre 600 miliardi di dollari. Le due potenze, congiuntamente alla Russia, guardano al progetto Nuova Via della Seta (One Belt, One Road Economies) per unire direttamente Cina, Medio Oriente ed Europa. I cinesi avanzano fulminei nella costruzione di infrastrutture ed accordi commerciali, come la nuova linea ferroviaria Cina-Kazakistan-Turkmenistan-Iran: diecimila chilometri su strada ferrata che collegano direttamente Yiwu e Theran, riducendo di oltre un mese il viaggio rispetto al consueto tragitto via mare. Nel documento (http://news.xinhuanet.com/english/china/2016-01/13/c_135006619.htm) la strategia di mutuo beneficio è descritta come uno schema 1+2+3, in cui la cooperazione energetica è il presupposto, greggio e gas naturali in cambio di costruzione di infrastrutture, agevolazioni nello scambio di merci ed investimenti, cooperazione tecnologica per energia nucleare, satelliti spaziali ed energia rinnovabile. Il cuore dell’Eurasia pulsa sempre più forte.

L’Iran, però, è anche parte attiva nel conflitto israelo-palestinese, in quanto sostiene pure Hamas (Movimento Islamico di Resistenza), organizzazione palestinese di carattere politico e paramilitare. Terrorista per alcune nazioni (UE, USA, Israele, Canada, Egitto e Giappone), mentre riconosciuto per altre (Iran, Russia, Cina, Norvegia, Svizzera, Brasile, Turchia e Qatar). Dal 2007 Hamas controlla la Striscia di Gaza, mentre l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) controlla la Cisgiordania ed interagisce con l’Autorità Palestinese. Hamas è nato e continua come movimento nazionale di liberazione, persegue il ritorno della Palestina alla sua condizione precoloniale e l’istituzione di uno Stato Palestinese, tramite lo sforzo individuale e collettivo jihād, declinabile anche nella guerra.

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite si impose su questi territori, decidendo con risoluzione n.181/ONU-29/11/1947 di ripartire la Palestina creando due stati indipendenti (ebraico e palestinese), nonostante la situazione fosse incandescente già dall’insediamento britannico (fine‘800-inizi‘900). Il contrasto fra la nuova società israeliana e quella indigena di arabi e palestinesi non avrebbe potuto essere più forte, divenendo una delle più gravi questioni degli ultimi secoli, con entrambi i popoli fortemente dilaniati. Nuovo campo per la contrapposizione statunitense/sovietica, con Israele pilastro nelle alleanze filoccidentali e la strumentalizzazione della questione palestinese per le leadership arabe.

Ebrei e palestinesi non si danno tregua, continuando in attacchi e contrattacchi per guadagnare metri. Scintille anche sul fronte libanese, Israele si allarga sempre di più mangiandosi i confini delle acque territoriali. Qui le tensioni sono per il gigantesco giacimento Leviathan, il più grande di gas e petrolio finora scoperto nel Mediterraneo.

Contro il governo israeliano sono schierati lo Stato di Palestina, l’OLP, la Lega Araba (tra cui Siria, Iraq, Libano) Iran, Hamas ed il movimento Hezbollah. La forza crescente dell’Iran, prezioso alleato di Cina e Russia, nonché sostenitore di Hamas ed Hezbollah, ha recentemente portato a rivedere il sistema delle alleanze. Anche l’Egitto, nuovo partner commerciale cinese, ha riaperto le relazioni diplomatiche con il governo iraniano. Firmato a Pechino un memorandum d’intesa Cina-Egitto e 21 accordi bilaterali volti a rafforzare la cooperazione in vari settori tra cui agroalimentare, infrastrutture, commercio, energia, finanza, aerospazio, cultura e tecnologia (accordi gennaio 2016 e maggio 2017).

L’espansione in Africa assume un ruolo strategico per la Nuova Via della Seta. La Repubbblica Popolare avanza ed è già in importanti affari con Marocco, Angola, Sudan (tra cui China National Petroleum Corporation), ha firmato accordi per lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi anche con i governi di Ciad, Mauritania e Guinea Equatoriale. Massicciamente presente in Gibuti (Corno d’Africa), Mali e Tanzania, con apporti ultramiliardari per infrastrutture, aziende, porti e basi militari.

Per anche tutti questi motivi, la polarizzazione tra Iran e Arabia Saudita ha cambiato gli equilibri storici del territorio: Riyad e Tel Aviv non si considerano più nemici. L’Arabia Saudita, faro dell’islam sunnita integralista oggi va a braccetto con Israele, tempio del giudaismo. Fantapolitica? Gli eterni avversari si ritrovano entrambi alleati degli USA, con l’obiettivo di ridurre la potenza iraniana e rovesciare il governo siriano.

Vedendo, però, sempre più forti le alleanze euroasiatiche, Israele si protende verso Singapore, Australia, India, Vietnam e Cina (Accordo di cooperazione sull’innovazione e l’alta tecnologia Israele-Cina, marzo 2017), per rafforzare le relazioni commerciali, industriali e strategiche, oltre ad allargare il suo mercato di armi. Ma a Pechino si è recato anche il re saudita Salman, che ha firmato accordi miliardari per energia, finanza, cultura ed aerospazio (marzo 2017: 14+35 accordi di cooperazione bilaterale, Arab News). Anche l’Arabia Saudita è interessata ad entrare nel “One Belt One Road – Nuova via della Seta”, e punta ad essere l’hub di connessione fra i tre continenti (intervista all’agenzia di stampa cinese dall’ambasciatore saudita a Pechino, Turki bin Mohamed Al-Mady).

Con interessi così forti, la supervisione cinese non dovrebbe consentire che i paesi mediorientali ingaggino una qualsiasi disavventura l’uno contro l’altro. Tuttavia, la Cina invita Arabia Saudita ed Iran a risolvere le dispute in corso. Nel frattempo, l’America sembra riaprire i canali di comunicazione con Pechino per stringere nuove intese economiche.

Al forum mondiale per il progetto OBOR erano presenti 29 Stati, tra cui le delegazioni di Russia, Pakistan, Filippine, Myanmar, USA ed incredibilmente anche la Corea del Nord (maggio 2017). La polveriera creata e continuamente alimentata nelle regioni africane, medio orientali ed asiatiche certo non semplifica i commerci internazionali e l’evoluzione verso il benessere collettivo. Il progetto cinese, seppur mosso da profitti e poteri, implica la convergenza di tutte le fazioni, governative o ribelli che siano. Un’utopistica risoluzione dei conflitti ed una civile coesistenza dei partners commerciali, però, non è sempre di guadagno e convenienza per alcuni. Resta, quindi, da capire se la contropartita sia sufficiente per dettare un incisivo cambio di rotta nelle dinamiche della politica internazionale. Tutti contro tutti, sempre intrecciati però da alleanze militari e commerciali.

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