Pubblicato: ven, 12 Ago , 2022

Arresti domiciliari e Detenzione domiciliare

Misure alternative che minano l’efficacia del sistema penale italiano. 

Un clamoroso corto circuito nel nostro sistema penale che vanifica l’operato delle forze dell’ordine e l’efficacia del sistema giudiziario si rintraccia nella misura alternativa degli arresti domiciliari. Una misura cautelare con la quale si vuole evitare che l’imputato, nei confronti del quale siano stati raccolti gravi indizi di colpevolezza, possa reiterare la condotta criminosa, che fugga, oppure che possa alterare le prove che verranno poi utilizzate nel corso del processo a suo carico. Beninteso, l’indagato non sta scontando la pena, ma semplicemente la sua libertà personale è limitata in attesa di giudizio nel caso la situazione lo richieda.

L’istituto è utilizzato con frequenza in alternativa alla custodia cautelare in carcere ed è disciplinato dall’art.284 codice procedura penale. Obbligando il soggetto alla permanenza ai domiciliari non si intende anticipare alcuna pena, prima di un giusto processo, ma la misura dovrebbe essere volta a garantire la correttezza di indagini, tutela della persona offesa, prevenzione di ulteriori crimini. Il palliativo è divenuto necessario per far fronte ai mesi se non anni di attesa prima dello svolgimento del processo. Tuttavia, non passa giorno in cui si hanno notizie di imputati ai domiciliari che proseguono l’attività illecita o che si sottraggano alla giustizia.

La misura così proposta non risulta efficace perché di fatto non impedisce contatti e comunicazioni, aspetto assai rilevante soprattutto per le bande criminali, gli affiliati delle consorterie mafiose o uomini cerniera. Anche gli spostamenti, vietati, in realtà avvengono frequentemente. I controlli sono facilmente elusi, d’altra parte è impossibile per le forze dell’ordine controllare H24 ogni imputato nel domicilio eletto, su tutto il territorio nazionale. Nelle more delle lungaggini burocratiche, accade così che chi delinque possa proseguire le proprie attività come se nulla fosse. Il soggetto sottoposto agli arresti domiciliari dovrebbe permanere nel perimetro delle mura domestiche o degli altri siti di esecuzione della misura e, nel caso il giudice lo abbia espressamente disposto, non può utilizzare internet, il telefono e altri mezzi di comunicazione a distanza e non può ricevere persone, al di fuori di coloro che abitano con lui o che lo assistono. Limitazioni queste tutte facilmente obliterabili. L’imputato agli arresti domiciliari può fruire di permessi al fine di allontanarsi dal luogo di detenzione per il tempo necessario al compimento delle incombenze. Molto ampia è la casistica: dal fare la spesa o recarsi in farmacia, provvedere ad altre indispensabili esigenze di vita, visite mediche, il controllo dal dentista. I permessi possono essere concessi anche per consentire di svolgere un’attività lavorativa o per accompagnare i figli a scuola (sempre che non vi sia nessun altro disponibile a farlo e non vi siano i mezzi economici per assumere qualcuno che vi provveda).

La persona sottoposta agli arresti domiciliari gode di possibilità e condizioni completamente diverse da quelle riservate al detenuto; le esigenze cautelari non si possono ritenere affatto soddisfatte. Le differenze sono evidenti, non solo negli spazi e collegamenti a disposizione, ma anche nell’agio e nella morbidezza della misura prevista, soprattutto in caso di individui particolarmente facoltosi. Inoltre, in base ad un’interpretazione estensiva del comma 3 dell’articolo 284 c.p.p., la Corte di Cassazione ritiene che il riferimento alle indispensabili esigenze di vita possa includere anche il soddisfacimento di bisogni di natura religiosa, il mantenimento delle relazioni familiari e sociali e l’espletamento delle funzioni genitoriali e, coerentemente con il dettato costituzionale inteso alla valorizzazione dei diritti fondamentali dell’individuo, l’autorizzazione all’allontanamento può essere disposta non solo per assicurare la sopravvivenza fisica della persona, ma anche per soddisfare bisogni di ordine spirituale. Tutto questo esplica nel migliore dei modi il carattere garantista del nostro ordinamento, volto quindi a tutelare i diritti dell’imputato [che non è ancora condannato]. Tuttavia, in questo eccesso di premure vengono meno la tutela per la persona offesa e la prevenzione di ulteriori reati. Vanificato completamente il lavoro svolto dalle forze dell’ordine, che si trovano dopo aver già fermato un soggetto potenzialmente pericoloso, spesso non senza difficoltà, a vederlo andare a fare shopping e passeggiare per raggiungere un improbabile incontro di meditazione buddhista, o ritornare ad agire per il tramite della sua rete sociale e familiare.

Oltre all’ipotesi di misura cautelare, la legge italiana contempla anche la detenzione domiciliare (L. 354/1975, L. 663/1986, L.165/1998, L. 40/2001 e segg). A questo riguardo si sono succeduti svariati interventi, che hanno portato ad un’espansione della misura in tutte le direzioni: dall’aumento dei limiti edittali, all’inclusione di ulteriori soggetti beneficiari, dall’individuazione di nuove finalità alla differenziazione delle condizioni d’ammissibilità. La detenzione domiciliare sembra l’unica panacea possibile, soprattutto da quando il problema del sovraffollamento carcerario è diventato un vero assist per i reati di natura finanziaria e mafiosa.

E’ una misura alternativa, che elimina del tutto la permanenza in carcere, nessun onere grava sull’amministrazione penitenziaria: il condannato vive a sue spese e non a carico dello Stato, motivo in più per cui piace. Risulta, però, carente di contenuti risocializzanti e non risponde ad esigenze di difesa sociale. All’art. 47 ter O.P. si prevede, a seguito di una condanna definitiva, l’esecuzione vera e propria della pena nell’abitazione, in altro luogo di privata dimora, o in luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza. La concessione del beneficio è rivolta ai soggetti che abbiano compiuto i 70 anni di età, purché non siano stati condannati per reati cosiddetti a sfondo sessuale (ex artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p.). Per soggetti condannati alla pena della reclusione non superiore ad anni 4 (anche costituente residuo di maggior pena), donne incinta o madri di prole di età non superiore a 10 anni con esse conviventi; persone che versano in uno stato di salute particolarmente grave da necessitare di costanti contatti con i presidi sanitari del territorio; persone che abbiano compiuto i 60 anni di età e affetti da patologie; persone che non abbiano compiuto i 21 anni di età, per motivi di lavoro, famiglia, salute e studio. E’ prevista anche nei confronti dei condannati alla pena detentiva non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena. La detenzione domiciliare, a seguito delle numerose modifiche apportate, è passata da una funzione umanitaria ed assistenziale ad una funzione atta al contrasto del fenomeno, sempre più incalzante, del sovraffollamento carcerario. Da tutto questo, sono state sollevate diverse critiche circa il rispetto del principio della rieducazione della pena sancito dall’art. 27 Cost. e dall’art. 1 o.p.. Viene meno anche il principio di certezza della pena e, conseguentemente, il suo fine deterrente.

Si segnala la mancanza di infrastrutture e personale, congiuntamente a programmi di rieducazione e reinserimento obbligatori, che impongano al detenuto lavori utili per autosostenersi e contribuire alla società, mimando il concept delle Prisons Farm o dei ristoranti “galeotti”. Con le debite distinzioni tra delitti e contravvenzioni, gravità dei reati, colpevolezza e circostanze intervenute, dando come punti di partenza imprescindibili l’equità dei processi e la certezza della pena, è necessario rivedere l’approccio allo sconto della stessa. Il peso economico delle carceri sull’economia nazionale è consistente e la mera detenzione non ha nulla di rieducativo. Ozio e noia diventano i peggiori vettori per affiliazioni e nuove idee criminali, amplificano i comportamenti violenti e destrutturati. D’altra parte, nemmeno demandare il problema ai quartieri sembra una buona soluzione. L’Home detention, house arrest, o curfew è usata solo in Italia e Spagna, in via residuale in Inghilterra. Negli altri stati prevalgono detenzione, lavori socialmente utili e l’uscita dal carcere con braccialetto elettronico.

Secondo i dati del ministero della giustizia italiano, nel nostro paese oltre i 2/3 degli ex detenuti torna a delinquere, nel 18% dei casi si arriva ad una recidiva di addirittura 5 condanne. Al 31/03/2022 in Italia si sono contati 54.609 detenuti, come dire una città poco più grande di Siena. Sono 8.496 che attendono il primo giudizio, mentre 38.307 hanno già una condanna definitiva e solo 276 prestano lavoro nelle colonie agricole (fonte Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Sezione Statistica).

Nell’immenso patrimonio italiano sono innumerevoli e documentati gli edifici abbandonati che ben potrebbero essere ristrutturati e utilmente impiegati. Nella smania di cementificare e costruire continuamente, non si spiega come il business edilizio non venga incanalato per le risorse pubbliche come scuole, ospedali, strutture psichiatriche, sert,  caserme e carceri.

Infine, un’ultima considerazione: dove vi è certezza della pena e processi snelli, chi viene condannato salda il suo debito senza potersene svincolare, non essendoci spazio per alcun tipo di escamotage. Ce lo insegnano bene i paesi del Nord Europa e quelli oltre oceano. Il reale problema, però, è che poi le norme si devono applicare proprio a tutti. Ed è per questo che gli italiani non scelgono di riformare in modo oculato il sistema penale e di informatizzarlo, ciò significherebbe chiudere le vie di fuga per troppi amici di amici.

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