Pubblicato: dom, 30 Ott , 2022

Perfido Porfido: il caso di Lona Lases e la ndrangheta che impedisce le elezioni del sindaco

Anche in Trentino le mafie inquinano tutto e minano la democrazia

Oltre 1300km separano un paesello dell’Aspromonte da quello ancora più piccolo delle Dolomiti. Cosa congiunge le due regioni agli estremi dello stivale? A quanto pare è il business tra imprenditoria e ndrangheta.

Che se ne dica, la consorteria mafiosa è presente e attiva anche in Trentino: ce lo racconta bene la vicenda di Lona Lases, comune della Val di Cembra, appena 872 anime, in provincia di Trento. Da anni è nel turbinio delle indagini per infiltrazioni mafiose e dal 2021 è senza sindaco. Da allora sono seguite ben tre tornate elettorali per conferire l’incarico, tutte annullate per mancanza di candidati. Le prossime elezioni si sarebbero dovute tenere a novembre, ma nessuno si è fatto avanti e il paese è ancora senza il suo primo cittadino e consiglio comunale. Si susseguono i commissariamenti in questa piccola realtà arroccata tra le montagne e le cave, in un contesto che è sempre stato lontano e blindato nella ricchezza dei suoi territori montani. Anche il cd “oro rosso”, il porfido, ha calamitato gli interessi delle consorterie mafiose, che da oltre tre decenni hanno infiltrato il tessuto sociale ed economico della zona in svariate direzioni: dai servizi, al turismo, trasporti, ponteggi, aziende, appalti.

Già nel 2017 la Direzione Investigativa Antimafia aveva raccolto in un semestre 903 operazioni bancarie e finanziarie segnalate come sospette per riciclaggio di denaro sporco. Così come in passato, il segretario comunale di Lona Lases dell’epoca, il dott. Marco Galvagni, aveva sollevato molteplici dubbi e perplessità, depositando coraggiosamente anche un rapporto in cui descriveva la grave situazione. Un fascicolo di inchiesta in cui attestava lo sbarco della ‘ndrangheta nel business delle cave. Segnalato il rintraccio di nomi pesanti, come la famiglia Grande Aracri, dagli inquirenti ritenuta snodo del radicamento delle mafie calabresi al nord. Dall’Emilia alla Bassa Lombardia, Verona, e poi su fino ai territori trentini. Nell’agosto 2014 era stato sequestrato in Spagna un carico di porfido e cocaina. Tra le società e gli imprenditori legati alla spedizione ve ne erano anche alcuni noti per la loro attività in Trentino. Il segretario comunale decide di controllare le imprese specializzate nelle cave, che nel territorio sono una vera potenza politica ed economica. Scopre, quindi, che queste sono spesso controllate da calabresi e che i soci siedono anche nei Comuni dei paesi limitrofi, nelle istituzioni e nelle società che ricevono le concessioni. Nel rapporto pone una lente di ingrandimento su diverse società; una in particolare chiama l’attenzione per il suo amministratore unico, che ha ricoperto incarichi istituzionali anche nel Comune di Lona Lases, e i cui soci sono finiti nella colossale inchiesta Aemilia sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta tra Reggio Emilia e Mantova. Si scorge un nome ricorrente, scrivono gli inquirenti nella carte dell’inchiesta Aemilia, che è anche legato in altre società a Salvatore Grande Aracri. Il segretario denuncia anche frammentazione, bassa innovazione e concorrenza sleale nel settore. Da oltre cinquant’anni le concessioni pubbliche sono gestite dalle stesse famiglie in comuni condizionati da uno storico conflitto d’interessi. Dalla fine degli anni ’80 lavorano nelle cave marocchini, tunisini, macedoni, albanesi, cinesi. Si formano comunità nelle comunità, alle dipendenze di campani e calabresi arrivati decenni prima attirati dai facili guadagni. Il porfido è una certezza e il lavoro è abbondante, a patto di tollerarne le dure condizioni materiali. Si batte all’aria aperta, nella polvere se c’è il sole, nel fango se piove. In molte cave non esistono acqua potabile e servizi igienici. Le mafie prosperano non solo con la complicità ma anche con l’indifferenza. Le denunce del dott. Galvagni restano prive di riscontro, fino a quando il suo fascicolo raggiunge un’interrogazione parlamentare: “gli elementi sopra esposti appaiono di per sé gravi e tali da ritenere necessaria anche una tutela del segretario denunciante”. Un funzionario pubblico presenta una denuncia di venti pagine, precisa, circostanziata, e in Parlamento c’è chi chiede che sia protetto perché è in pericolo. A Trento. Tra i ridenti paesi dolomitici, dove nessuno voleva assumere incarichi comunali e dove negli anni passati avevano fatto brillare 12 kg di tritolo a 100 metri dall’abitazione dell’assessore alle cave ed era stata data alle fiamme l’auto del vicesindaco durante la seduta di giunta.

Nel 2020 l’operazione Perfido, che ha confermato le infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle cave, ha aperto un ulteriore capitolo parallelo, gettando luce anche sulle attività della mala nel settore dei trasporti. Le aziende indagate sono trentine, venete, romane e calabresi. Spesso le collaborazioni mafiose sono volute dalle stesse aziende, in particolare quelle con problemi di liquidità, che trovavano sbarrate le porte delle banche. Così, rapidamente, arrivavano gli emissari delle ndrine, si infiltrano attraverso generosi quanto immediati prestiti, che diventano cappi al collo. Ma ci sono anche i colossi dell’imprenditoria che, con l’obiettivo di raggiungere maggiori guadagni, anche se illeciti, entrano in affari con i clan. Interessi amministrativi e interessi imprenditoriali: dalle risultanze investigative emerge, infatti, un dialogo voluto e cercato tra la classe politica e imprenditoriale con le consorterie mafiose. Ed è evidente come la forte influenza dei calabresi sia ben radicata nella valle, tanto da non essere nemmeno ora contraddetta e mandare buche tutte le candidature comunali. Il paese è diviso tra chi ha denunciato e chi nega la presenza della mafia nel territorio.

Eppure, agli oltre venti indagati, tra cui anche ex sindaci ed ex consiglieri comunali, sono stati contestati a vario titolo i delitti di associazione mafiosa in quanto appartenenti alla ‘ndrangheta, scambio elettorale politico-mafioso, porto e detenzione illegale di armi da fuoco e riduzione in schiavitù. Si aggiungono poi altri cinque soggetti pure indagati per reati analoghi e sottoposti a fermo indiziario. Sullo sfondo anche l’oscuro presagio di alcuni membri collusi all’interno delle stesse forze dell’ordine.
Da quanto emerso dalle indagini, la cellula ndranghetista, impiantatasi a Lona Lases, è riferibile alla struttura operante a Cardeto, nell’area metropolitana di Reggio Calabria con collegamenti anche fuori dall’Italia, composta in particolare dalle potenti cosche reggine dei Serraino, Iamonte, Paviglianiti e i Macheda. Gli inquirenti hanno rintracciato una fitta rete di contatti tra imprenditoria, istituzioni e politica, rilevando tra le altre il sostegno elettorale ad alcuni candidati in vari appuntamenti per il rinnovo degli enti locali. Intrecci politici indispensabili, agevolati dalle disposizioni statutarie, secondo cui il Trentino ha competenza a legiferare sull’attività estrattiva. Vista la presenza duratura dei clan sul territorio e tenendo conto delle numerose modifiche alla legge sulle cave, è evidente come le ndrine e gli imprenditori a loro affiliati volessero beneficiarne. Grazie a una serie di controlli incrociati tra banche dati, società, conti correnti, proprietà e dichiarazioni dei redditi, è stato possibile ricostruire gli ultimi dieci anni di rapporti e parentele, di persone fisiche e giuridiche ad essi collegati. L’operazione ha visto le sinergie congiunte delle procure di Trento, Roma e Reggio Calabria, con l’esecuzione di misure cautelari a carico di 19 soggetti indagati. Quindici le società poste sotto sequestro tra Lona Lases, Gardolo, Trento, Verona, Padova, Roma e Reggio Calabria. Sotto sequestro anche numerose automobili di lusso, decine di immobili, automezzi, macchine da cantiere e 18 conti correnti, per un totale stimato di oltre 5 milioni di euro, oltre ad alcune delle cave nelle quali le ditte operavano.

Tutto in queste valli ruota attorno alle cave, e anche alla pietra si è aggrappata la mafia calabrese. Una mafia occulta, silenziosa, che riesce a mimetizzarsi tra i blocchi di porfido, con operazioni bancarie non troppo sospette, infiltrando l’economia in tutte le sue declinazioni. Grandi cavatori che gestiscono le concessioni, seguendo i loro profitti, con prezzi sfasati e inquinamento del mercato, appalti e subappalti opachi, vessazioni e sfruttamento degli operai. Disumanità programmata, intimidazioni e violenze verso i competitors così come ai propri soci. Condizioni di schiavitù, stipendi irrisori – scrivono gli inquirenti – sfruttamento del lavoro in nero, operai senza assicurazione nè materiali adatti per le attività di scavo, pagati quasi sempre con ritardi tali da patire la fame e dormire in strada. Le intercettazioni dell’Operazione Perfido descrivono la disumanità freddamente razionale, programmata, intrinseca alla gestione ‘ndranghetista del business, favorita da un giro di insospettabili. Condizioni distopiche che drammaticamente ricordano le condizioni delle miniere sudamericane sempre in mano alle mafie nostrane. E allora è Cava Nostra: sfruttamento dei lavoratori, evasione dell’iva e delle tasse, intenzionale conduzione delle società al fallimento per rilevarle; false fatturazioni, società cartiere e prestanome, riciclaggio di denaro, usura ed estorsioni. Accertato il mai reciso legame con la madre calabra, con San Luca e Polsi, un’interazione reciproca sempre viva. Quando un boss calabrese giunge in Trentino innanzitutto va a ossequiare il responsabile della locale, Innocenzo Macheda, riconoscendone così la preminenza.

A febbraio di quest’anno, le prime condanne: il gup ha riconosciuto l’associazione mafiosa oltre al reato di riduzione in schiavitù, condannando a 10 anni e 10 mesi e al pagamento di oltre mezzo milione di euro per risarcimento uno dei calabresi di Cardeto. Secondo l’accusa, l’imputato avrebbe un ruolo apicale negli interessi della ‘ndrangheta nei comuni di Albiano e Lona-Lases. Altri due imputati, considerati il braccio armato del sodalizio trentino, hanno richiesto il patteggiamento. Le accuse nei loro confronti sono state drasticamente ridimensionate, è stato riconosciuto il loro appoggio ma non l’appartenenza all’associazione mafiosa. I loro legami con l’amministrazione comunale di Lona Lases guidata da un sindaco accusato di voto di scambio politico-mafioso non erano certo irrilevanti, ma non è stato possibile accertarli nel processo.

Nonostante le indagini abbiano disvelato un sistema inquinato, le concessioni delle cave sono ancora in essere con le stesse modalità. Rovesciata l’iniziale proporzione di 80-20, secondo cui l’80% del porfido estratto dai concessionari avrebbe dovuto essere lavorato in zona con il restante 20% esportato fuori dal territorio. Dalle risultanze investigative sembrerebbe emergere che nemmeno il 40% viene lavorato in loco, mentre oltre il 60% è diretto fuori. Un’esternalizzazione massiccia del lavoro, senza controlli sulla manodopera, che sembra fruttare guadagni milionari. Necessario un intervento immediato sulla normativa delle concessioni, che -è evidente- non possono essere lasciate alla gestione comunale facilmente infiltrabile. La Provincia, se non addirittura un commissario antimafia, dovrebbe gestire direttamente le concessioni e le gare delle cave, così come per le sostanze minerarie di prima categoria, le acque minerali, per poi distribuire i canoni sui Comuni, verificando che il materiale scavato sia effettivamente lavorato dal concessionario sul territorio. La piccola realtà di Lona Lases attende per l’ennesima volta un commissariamento che la guidi, pur avendo chiesto l’insediamento della DIA e di un funzionario amministrativo del medesimo nucleo operativo.

Le consorterie mafiose si insediano nei territori, creano una falsa legalità cercando relazioni che consentano loro di penetrare nel mondo politico, economico, delle forze dell’ordine, delle istituzioni. Con la stessa forza, entrano nell’alveo delle candidature locali, regionali e nazionali, alterando le votazioni politiche. L’inquinamento mafioso è economico ma anche democratico, in quanto influisce sulla rappresentanza, sulla giustizia, sull’amministrazione della cosa pubblica. Per questo, quando si parla delle attività mafiose l’oggetto di tutela non è circoscritto solo all’ordine pubblico ma si estende anche a quello economico e al principio di legalità democratica e di rappresentatività delle istituzioni politiche. Il condizionamento mafioso del voto e del consenso elettorale, nonché la turbativa della libertà di voto, determinano un’esposizione al pericolo del valore costituzionale sotteso al circuito politico elettorale posto a fondamento dell’intero sistema della democrazia rappresentativa. Anche così si scardina la democrazia: dal paesello di periferia fino alle lucenti sale di Montecitorio, imponendo gli uomini dei clan nei ruoli apicali o impedendo le elezioni. Lona Lases è un caso da non dimenticare.

 

 

[dati integrati dalla relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia; processo Aemilia, processo Perfido]

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