Pubblicato: ven, 10 Apr , 2015

Sono di Ain Alhelwi – Vita di donna Palestinese profuga.

Ain AlHelwi, mia Palestina mescolata con lo spirito del Libano e le viscere della Palestina. Intervista a Racha Salah.

Racha ci racconta che è nata nel campo profughi di Ain Alhelwi o più precisamente, nell’ospedale Hammoud a Saida prima di essere portata al campo profughi. “Mia mamma ha ereditato la sua forza da una famiglia panaraba esiliata dopo la Nakba a Homs, dove ha studiato ed è entrata nel partito dove militava suo padre e dove ha conosciuto mio padre. E mio padre è un beduino, ha ereditato da sua madre e suo padre (che è stato ucciso dagli inglesi in Palestina) la convinzione di dover liberare la Palestina rubata per diventare lo stato di Israele. Ho una sorella maggiore e due fratelli minori. Ho un gran numero di cugini e cugine da parte di mia madre e mio padre nel campo profughi di Ain Alhelwi, e nei campi di Yarmouk e di Sit Zeinab, e a Damasco ( fuori dal campo). E come ogni Palestinese che si rispetta, ho un numero senza fine di parenti all’estero, di cui non posso più riconoscere chi sia il figlio e chi è il padre di chi.

a scuola palestinesiSono stata cresciuta da mia nonna e dalle mie zie da parte di mio padre nel campo, e certamente con un gregge di bambini della famiglia. Ho mangiato il più buon cibo dalla mano di mia nonna e delle mie zie, e ho indossato quello che tutti hanno indossato. Ho giocato nelle giostre del Eid, e ho avuto la testa che gira nella barchetta nel mare di Saida. E ho venduto i dolcetti e i lupini con Jaber e Sameh davanti a casa per poter pagare il biglietto per i film di Bruce lee, e ho mendicato il resto dagli zii, per vedere i film indiani con Hala, Hanadi, e Zeinab. Ibn Saoud, che è anche uno dei nostri arabi (gli arabi di Ghouair Abu Sciuscia), era l’unico a possedere un video e una TV grande. Quindi era, per noi, il cinema della strada bassa del campo. Mi sono nascosta nei rifugi del quartiere Hara con gli altri. E come gli altri, ho visto una schizofrenia ogni volta che tornavo a Beirut (dove i miei si sono trasferiti per vivere). E ogni lunedì mattina, ho dovuto rimanere zitta per nascondere il mio accento palestinese nelle scuole di Beirut, della Beqaa e Zaarourie; dove ci siamo trasferiti ogni volta per fuggire un certo evento o un nuovo nemico.

I piccoli sono cresciuti, e sono volata in Francia per studiare. E gli anni sono passati, e ho avuto il passaporto francese dopo anni di matrimonio con un uomo francese, di studio e di lavoro e dopo aver avuto i due più bei bambini che la Grande Francia abbia mai sognato di avere. Un misto meraviglioso tra lo spirito della Francia e le viscere della Palestina. E naturalmente dopo avere pagato tante tasse e memorizzato l’inno nazionale anche senza apprezzarne il senso.

Il passaporto mi ha cambiato il corso della vita. Non mi fermavo più sui confini di ogni paese quando entravo o uscivo per spiegare che anche se sono una profuga, sono anche una studentessa universitaria nella città francese di Tolosa e sono costretta a viaggiare. E nessuno pensa più che ho rubato i miei due bimbi francesi; francamente li capivo perché il colore della mia pelle mora scura e la loro pelle bianca neve facevano pensare che sono la loro tata e non la loro mamma. Però, grazie al sole bruciante e abbronzante del Libano, e la mia insistenza a non usare per loro qualsiasi crema per proteggerli dal solleone, sono diventati quasi del mio stesso colore. E non facevo più paura a nessun poliziotto che mi chiedeva il passaporto e riceveva da me un libretto di uno strano marrone mai visto prima e che gli dava l’dea che fossi di un altro pianeta. E non dovevo più stare in piedi per ore a fare delle code umilianti per avere un visto, quando mai riuscivo a riceverlo. E non mi era più vietato di viaggiare nel 90% dei paesi arabi (a dire il vero, non sono potuta entrare in nessun paese arabo tranne la Siria con questo libretto marrone). E dopo anni, non dovevo più nascondermi nel bagno ad ogni visita ufficiale che mi poteva procurare dei problemi al lavoro, essendo un’impiegata palestinese, e quindi non dichiarata e illegale. E in cambio sono obbligata a pagare caro per avere il permesso di soggiorno e di lavoro in quanto Francese in Libano.

Mi ricordo una volta, in uno degli impieghi che avevo avuto, avevo una collega che non si era mai abituata, durante l’intero anno che lavorammo insieme, all’idea che io fossi Palestinese e di Ain AlHelwi (mi ci vollero almeno due ore per spiegarle che non venivo ogni mattina in macchina in Libano dalla Palestina, e che Ain AlHelwi è a Saida, quindi in Libano), che conoscevo molto bene il francese, che potevo lavorare in un giornale francese (esattamente come lei), e che non andavo in giro con un Kalashnikov in spalla. Ma l’idea che ci fosse stato un uomo francese che avesse avuto il coraggio di sposare una palestinese come me era quasi inimmaginabile per lei. E quando un giorno vide questo marito, non ha potuto nascondere il suo shock sul fatto che esistesse veramente. E quando mi vide dieci anni dopo nello stesso posto, e mi chiese di mio marito e dei miei figli, non potette stavolta nascondere un sospiro, che era chiarissimo nella sua voce (non era per cattiveria ma per sua logica) quando le annunciai che ci eravamo lasciati da anni. Come se la parola “Ah ecco hai visto” stesse per sfuggire dalla sua bocca.

Avevo sempre pensato che sarebbe morta di infarto se avesse saputo che avevo fatto la festa del mio matrimonio sul tetto della casa di mio zio nel campo. Per la verità, il viso di mio marito era senza colore in quel momento. Tuttavia, dopo un po’ di musica e riscaldamento, aveva iniziato a sentirsi meglio. E allora ebbi uno dei più bei matrimoni del campo, che venne superato solo dopo qualche anno dal matrimonio di mio fratello sopra il tetto della casa di mia zia, con una danese. Quel giorno, si erano uniti alla nostra tribù e agli amici più di una trentina di ragazze e ragazzi amici di lei, ed il nostro quartiere era tutto rallegrato dal colore dei loro capelli biondi e dei loro visi bianchi, e le loro urla danesi si mescolavano con le Zagharid (ulululu) della famiglia e dei vicini.

Il passaporto francese era anche la mia chiave per scoprire la Palestina. Ci sono andata in compagnia di mia sorella di nazionalità tedesca e ho scoperto quello che ho potuto. Ho provato dolore nel sentirmi straniera. E ho sorriso quando ho visto quello che ha descritto mia nonna. E ho riso quando il primo palestinese (nel cuore della Palestina) ha pronunciato una parolaccia. E ho pianto quando non ho trovato la madrepatria. E mi sono persa quando hanno chiesto a me e a mia sorella del nostro accento (non siete due palestinesi come noi qui?). Perché tutti insistono a dire che il nostro accento non è perfettamente Palestinese? Qualcuno ha anche detto che parliamo come i libanesi. Io?? Noi? Eravamo sorprese da questa osservazione, e feci un timido sorriso. Sapeste tutti i problemi che ho avuto per colpa del mio accento palestinese in Libano… ed eccovi a accusarmi del mio accento. E mi sono confusa quando non ho trovato un posto mio. E mi sono sorpresa del bisogno di tornare a Ain AlHelwi.

Ero davanti a una madre che non mi ha voluto, e non ha chiesto a un Dio di avermi, ma era obbligata a sopportarmi (con la sua lamentela giornaliera: ”ti ho cresciuta, ti ho educata, ti ho sopportata, ti ho accolta”), e una madre biologica che non ha riconosciuto il mio odore né quello che ho provato a mantenere del suo accento e nemmeno il mio colore venendo dal suo nord, né la mia tristezza di essere lontana da lei. Non potevo sognare che del ritorno al mio campo. a Ain AlHelwi.

Lì ho pronunciato le mie prime parole senza paura dell’accento, e ho assaggiato l’ibisco dalla mia nonna, e ho rubato il primo sorso di caffè con cardamomo dal mio nonno. Lì, avevo corso libera nei vicoli nudi ma calorosi. Lì, a Ain alHelwi, ho amato il figlio dei vicini, e ho stuzzicato i semi, e ho letto i romanzi “Abir”, e ho ballato la dabké e ho suonato la barbouka nei matrimoni. Lì, ho cantato per la Palestina, e mi sono nascosta nel rifugio ammuffito, ma ho anche dormito con calma. Lì adesso voglio essere seppellita, in quel campo dove gli abitanti provano a resistere e sorridere, in un campo ancora pieno di ululati nei matrimoni, e di amore nei vicoli, e di felicità nelle feste, e di tristezza ogni volta lo consideriamo responsabile delle catastrofi, in Ain AlHelwi dove sono iniziate tutte le storie delle rivolte in Palestina”.

 

 

da: Quaderni di un popolo occupato (Assafir)

Traduzione di S. Mohsen – Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus

 

Di

Ultime notize

Europa, la strage degli innocenti. E le “vittime” si fanno carnefici, perchè?

23 luglio 2016, Commenti disabilitati su Europa, la strage degli innocenti. E le “vittime” si fanno carnefici, perchè?

LE MAFIE SONO UNA REALTÀ DEVASTANTE CON CUI FARE I CONTI, ANCHE IN TOSCANA

19 aprile 2024, Commenti disabilitati su LE MAFIE SONO UNA REALTÀ DEVASTANTE CON CUI FARE I CONTI, ANCHE IN TOSCANA

CON LA POVERTA’ CRESCONO ANCHE LE MAFIE

28 marzo 2024, Commenti disabilitati su CON LA POVERTA’ CRESCONO ANCHE LE MAFIE

L’anno che verrà si celebra a Crotone

30 dicembre 2023, Commenti disabilitati su L’anno che verrà si celebra a Crotone

Palermo, Borgo Parrini: il comune sfratta il bene confiscato alle mafie

13 dicembre 2023, Commenti disabilitati su Palermo, Borgo Parrini: il comune sfratta il bene confiscato alle mafie

Alla Sicilia e alla Calabria non servono ponti ma autostrade, ferrovie e aerei

26 novembre 2023, Commenti disabilitati su Alla Sicilia e alla Calabria non servono ponti ma autostrade, ferrovie e aerei

Video

Service Unavailable.