Pubblicato: Gio, 9 Gen , 2014

Trattativa Stato-mafia, Amurri: «Mannino disse: “Stavolta ci fottono”»

La cronista del Fatto racconta in aula a Palermo di quando ascoltò per caso, in un bar a Roma, la conversazione dell’ex ministro Dc. Direttore Padellaro: «Dopo strage Capaci, temeva per la propria vita»
L'ex ministo Calogero Mannino

L’ex ministo Calogero Mannino

È ripreso oggi, dall’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, il processo sulla trattativa Stato-mafia, volto ad accertare le responsabilità di chi è accusato di aver aperto un dialogo con Cosa nostra, al fine di far cessare la strategia stragista messa in atto nei primi anni ’90. Nell’udienza di questa mattina sono stati ascoltati i teste il direttore del Fatto Quotidiano Antonio Padellaro, la giornalista Sandra Amurri e il senatore (ex Fli) Aldo Di Biagio. Per la prima volta da quando è iniziato il dibattimento, in aula si sono presentati due degli imputati che non erano mai venuti a Palermo: il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. «Siamo due ex dipendenti dello Stato e non possiamo essere certo contumaci», ha detto Mori che però, insieme a De Donno, ha rifiutato di essere ripreso dalle telecamere dei giornalisti presenti. Entrambi sono accusati di attentato a corpo politico dello Stato. Mori, insieme all’ex generale del Ros Mauro Obinu, era stato assolto nel luglio scorso dal Tribunale di Palermo dall’accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995 a Mezzojuso. Adesso sia la Procura palermitana che la Procura generale hanno presentato appello all’assoluzione.

Davanti alla Corte d’Assise, presieduta dal giudice Alfredo Montalto, il primo ad essere ascoltato è stato Padellaro. Nella sua deposizione, il direttore del Fatto Quotidiano ha raccontato dell’incontro avuto l’8 luglio del 1992 con l’ex ministro Calogero Mannino, quando era ancora cronista per L’Espresso. I due si diedero appuntamento presso lo studio privato del politico, in via Borgognona, a Roma. Quella che sarebbe dovuta essere un’intervista sul clima che si respirava in Sicilia, e più in generale in Italia, all’indomani della strage di Capaci, si trasformò in un colloquio informale per volontà dello stesso Mannino, che impedì al giornalista di registrare l’incontro. «Mi trovai davanti un uomo agitato, spaventato dall’idea di essere finito nella lista nera di Cosa nostra – ha detto Padellaro –. Si sentiva braccato, fortemente in pericolo di vita. Era preoccupato anche per gli uomini della sua scorta. Mi disse pure che non andava più in Sicilia perché temeva che Cosa nostra venisse messa al corrente, tramite personaggi infiltrati, della sua eventuale presenza sull’isola».

«Mannino fece un’analisi molto accurata del contesto in cui maturò la strage che uccise il giudice Falcone; del potere della mafia in connessione con altri poteri; del maxiprocesso come di un punto di equilibrio di un nuovo rapporto politico, di quella sorta di compromesso che c’era stato tra Cosa nostra e la politica, venuto a mancare nel momento in cui i patti così come erano stati intesi dalla mafia non erano stati rispettati. Cosa nostra aveva offerto allo Stato la possibilità di ingabbiare elementi appartenenti alla mafia perdente e in cambio la Cassazione avrebbe dovuto mettere in libertà gli esponenti di primo piano della mafia vincente». Come sappiamo, la sentenza della Cassazione non esaudì le richieste dei mafiosi. L’equilibrio si era spezzato e, riferisce ancora Padellaro, «il potere feroce di Cosa nostra comandato da Riina aveva deciso di non spartire né di mediare più con nessuno, neanche con la politica».

«Tanto è vero che ci fu l’assassinio di Salvo Lima, segnale che Cosa nostra era scesa sul piede di guerra. Anche l’omicidio di Falcone faceva parte di quella dichiarazione di guerra». L’ex ministro avrebbe anche rivelato a Padellaro di essere stato «”avvicinato”, affinché si battesse per misure meno repressive contro la mafia e che lo fecero perché lo ritenevano un uomo “potente e intelligente”». «Mi disse – conclude – che lui non aveva voluto cedere e che per questo era stato messo nella lista nera».

Sandra Amurri è stata ascoltata, invece, in merito ad un episodio accaduto la mattina del 21 dicembre 2011. La giornalista aveva un appuntamento al bar Giolitti di Roma con Aldo Di Biagio (all’epoca parlamentare Fli, oggi senatore con Scelta Civica). Amurri si mise ad attendere l’arrivo dell’onorevole fuori dal bar ed è lì che, casualmente, ascoltò una conversazione tra Mannino e –ma questo lo scoprì solo in un secondo momento – l’eurodeputato Giuseppe Gargani, esponente della Dc. L’ex ministro confidava apertamente la propria preoccupazione riguardo all’evoluzione delle indagini dei magistrati di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. C’era molto freddo e io ero imbacuccata con sciarpa e cappello. Sono entrata nel bar che era affollato. «Mi sono seduta fuori per fumare e per bere un cappuccino. A quel punto ho visto Mannino. Io ero seduta con lo sguardo verso piazza del Parlamento e lui mi dava le spalle. Non mi ha visto o non mi ha riconosciuta. Ha iniziato a parlare con un’altra persona».

«Il tono di Mannino era molto concitato e preoccupato: “Glielo devi dire a De Mita, lui è stato chiamato. Lui deve confermare la nostra versione, perché questa volta ci fottono”, diceva. E il suo interlocutore gli diceva: “Sì, sì non ti preoccupare”. E insisteva Mannino: “Stavolta hanno capito tutto a Palermo, stavolta ci fottono”, aggiungendo poi: “Quel cretino di Ciancimino figlio di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità e il padre su di noi, lo sai, sapeva tutto, no?”». Il dialogo, naturalmente, attirò l’attenzione della giornalista che, non sapendo che di lì a poco proprio Mannino sarebbe stato inserito nel registro degli indagati per la trattativa, non riusciva a comprendere il timore di questi, riguardo le indagini dei magistrati di Palermo sull’onda delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ma capì l’importanza di quelle parole, cercando di prendere appunti senza farsi “scoprire” dai due. «A quel punto, però, Mannino si è girato leggermente e lì mi ha vista, solo allora dice qualcosa all’orecchio di Gargani e l’altro ha fatto un’espressione meravigliata. Si sono fatti gli auguri di Buon Natale e si sono salutati. Mannino è andato verso il Pantheon, mentre ho inseguito per qualche metro il suo interlocutore e l’ho fotografato col cellulare perché non riuscivo a riconoscerlo. Ho quindi inviato la foto via sms ad Antonio Ingroia e l’ho mostrata al mio direttore Antonio Padellaro e a Marco Travaglio. è stato Travaglio a riconoscerlo».

Soltanto a gennaio 2012, dopo aver letto un lancio di agenzia in cui si parlava di Mannino finito sotto inchiesta per la trattativa, Amurri capisce il senso di quella conversazione “intercettata” per caso. «Mandai un sms a Travaglio e dicendogli che questa era la chiave di quell’incontro di Mannino con Gargani. Tornando da Taranto, dove trascorsi il periodo natalizio da mia madre malata, parlai con il pm Antonino Di Matteo per mettere a verbale quanto avevo visto. Fui contattata da un ufficiale della Dia che mi disse che Antonio Ingroia era a Taranto per un convegno e lì ci saremmo potuti incontrare per verbalizzare. Telefonai anche a Piero Grasso, all’epoca procuratore nazionale antimafia, e mi disse di metterlo assolutamente a verbale. “È troppo importante!”».

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