Pubblicato: lun, 8 Ago , 2022

La trattativa stato-mafia ci fu, ma per “fini solidaristici”

L’improvvida iniziativa del Ros per l’incolumità nazionale e la reciproca coabitazione con Cosa Nostra  

Sembra dunque che Mori, Subranni e De Donno contattarono l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che ottenne dal capo dei capi l’autorizzazione a negoziare con le istituzioni. I giudici della corte d’Assise di Palermo hanno depositato 2971 pagine, in cui sciolgono i capi di accusa per i carabinieri del Ros e Dell’Utri condannati in primo grado, oltre ai sospetti su Scalfaro. Assolti.

Dopo 30 anni viene messo per iscritto: segmenti delle istituzioni e consorteria mafiosa interagiscono reciprocamente. Trattativa che a detta di troppi è sempre stata presunta o addirittura inesistente. L'”improvvida iniziativa” da parte dei carabinieri ci fu, fu accettata da Riina e fu portata avanti, aprendo un canale di comunicazione con la mafia. Ma per “fini solidaristici”, per “la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale e per la tutela di un interesse generale dello Stato”. Certo è che se vi era un interesse di Stato, i carabinieri non avrebbero potuto agire di loro semplice iniziativa, vi erano indicazioni o direttive da seguire. Impartite da chi, non è dato sapere e la sentenza non lo spiega. Si scrive direttamente che l’intento del Ros sarebbe stato quello di tessere “un’ibrida alleanza” con la cosiddetta componente moderata capeggiata da Bernardo Provenzano, disponibile e interessata a defenestrare Riina. L’obiettivo era “insediare al suo posto una leadership [mafiosa] propensa al dialogo, a incistarsi all’interno del tessuto economico ed istituzionale per potersi dedicare proficuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni”. Dopo aver subito pesantissime condanne in primo grado, gli uomini dello Stato, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno assieme agli altri imputati, sono stati tutti assolti perchè la trattiva fu portata avanti al fine di disinnescare la minaccia stragista. Le condanne inflitte ai mafiosi, i capi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, i quali non idearono la trattativa ma risposero alla proposta di dialogo pervenuta dalle istituzioni, sono invece state confermate.

I giudici d’appello ribaltano anche in un altro punto la sentenza di primo grado: non ritengono che la trattativa fra Stato e mafia abbia accelerato la strage Borsellino, ipotizzando invece che sia stata causata dalle indagini sugli appalti.

Le sconcertanti omissioni che seguirono la cattura del boss Riina si inquadrano “nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti. Con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino”. I Ros entrarono in trattativa direttamente con Riina, ma non perquisirono il suo covo per lanciare segnali distensivi ai mafiosi della fazione avversa. La latitanza di Provenzano e Nitto Santapaola diventò apparentemente un obbiettivo prioritario dell’impegno investigativo in Sicilia dei Ros, finendo per acquisire una sorta di monopolio di quelle indagini. Li si voleva ‘proteggere’, ossia favorirne la latitanza avocando a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo. Tattica questa che getta gravi perplessità anche sulla latitanza di Messina Denaro, irreperibile proprio dal 1993. Solo una volta eliminata la falange più violenta, “sarebbe stato pensabile e praticabile un dialogo volto al ripristino di un costume di rapporti effettivamente fondato su una reciproca coabitazione, o almeno sull’abbandono di uno stato di guerra permanente; e un’eventuale proposta di dialogo in tal senso non avrebbe potuto essere interpretata come un segno di debolezza dello Stato – che con la cattura dei capi corleonesi più pericolosi, a cominciare ovviamente dal capo di Cosa nostra – avrebbe dato al contrario una grande dimostrazione di forza e della propria capacità di colpire al cuore l’organizzazione mafiosa”. Reciproca Coabitazione, in cui il grigio diventa il colore imperativo.

Su un altro imputato eccellente di questo processo, l’ex senatore Marcello Dell’Utri (già condannato per concorso in associazione mafiosa in un altro processo) la corte scrive: “Manca l’ultimo miglio, non si ha prova, in altri termini nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto che abbia portato a termine quel progetto ricattatorio di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano”. La Corte, dunque, nella sentenza conferma che nel corso del processo sono emersi “elementi tali da far ritenere che in quel periodo, Dell’Utri abbia effettivamente incontrato personaggi mafiosi (non solo siciliani) per intessere un patto politico-mafioso nel quale si inserivano gli incontri di Mangano per recapitargli i desiderata di Cosa Nostra”. La Corte sottolinea però che “non si dispone della prova altrettanto solida e completa circa il fatto che questo meccanismo di comunicazione sia andato a termine fino alla fine, cioè che Dell’Utri abbia a sua volta trasmesso i messaggi a Berlusconi. Erano diversi i canali di comunicazione tra Riina-Dell’Utri-Berlusconi. E’ lo stesso Riina che lo racconta mentre è intercettato in carcere senza sapere di essere ascoltato. Ma ad oggi sembrano mancare le prove per confermarlo. “Al di là del pieno coinvolgimento di Dell’Utri nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita), sul quale sono state raccolti plurimi e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello, non si ha prova che a questa fase, qualificabile come un antefatto o antecedente non punibile, abbia fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione a Berlusconi per ottenere l’adempimento degli impegni assunti dallo stesso Dell’Utri in campagna elettorale.” Nella sentenza viene espresso in termini di certezza che Cosa Nostra aveva puntato sulla nuova forza politica rappresentata dal partito di Forza Italia e che c’era stata la decisione di appoggiarla nella convinzione che avrebbe garantito l’ottenimento dei benefici voluti dall’organizzazione mafiosa.

Vi è una realtà fattuale ed una processuale. Non sempre coincidono.

Tuttavia, emergono dei punti fermi: la trattativa tra mafia e segmenti delle istituzioni, politici ed intelligence è avvenuta, il mondo di “sopra” dei colletti bianchi comunica con quello dei clan. Al di là dell’interpretazione, non condivisa, per cui non costituisce reato, la trattativa resta comunque un fatto, documentato in modo definitivo. I protagonisti raccontano di una sorta di legittimazione a dialogare con la mafia, sembrando giustificare la possibilità che si possa trattare con i vertici di Cosa Nostra per favorire una fazione mafiosa piuttosto che un’altra, nel presunto intento di far cessare le stragi. La mancata perquisizione al covo di Riina come la latitanza coperta di Provenzano e Santapaola sono atti volti intenzionalmente a favorire la compagine mafiosa.

Dall’altra parte, Riina, considerato il braccio operativo stragista delle ‘menti raffinatissime’, di fronte agli altri membri della commissione [di cosa nostra] spiegava che l’accelerazione dei tempi per l’attentato al giudice Paolo Borsellino era dovuta a motivi politici, citando anche alcuni soggetti da “appoggiare ora e in futuro”, per una strage che “sarebbe stata alla lunga un bene per tutta Cosa nostra”. Tesi confermata da diversi collaboratori di giustizia: la finalità delle stragi era di portare in ‘sella’ dei parlamentari, che Riina aveva nelle mani. Cosa Nostra aveva aperto la trattativa con i Carabinieri e rafforzato i rapporti con alcuni politici.

Il furto istituzionale dell’agenda rossa di Borsellino e il depistaggio del falso pentito Scarantino, come i depistaggi Impastato e Aldo Moro, le ombre oscure di Andreotti e Cossiga, tra i tanti pezzi mancanti, non vengono mai citati in 3mila pagine, come se il movente e la tempistica di via d’Amelio potessero prescindere da elementi così cruciali. Il livello politico-istituzionale della strategia stragista 1992-’94 scompare: Riina avrebbe fatto tutto da solo, così come Mori e De Donno, capaci di indirizzare e pilotare un trentennio di storie di mafia e di misteri. Tutto da soli, sempre soli, senza un input, senza un ordine dall’alto, senza che nessuno coprisse loro le spalle. Un’iniziativa privata, “improvvida”, ma a fin di bene: l’“interesse dello Stato” di “cessare le stragi”. Quale Stato l’avesse ordinata, con quali norme o direttive, non si sa. Non certo lo Stato che servivano Falcone, Borsellino e le loro scorte, uccisi perché con Cosa Nostra loro non trattavano.

L’assenza di prove e la presentazione di verosimili tesi alternative rendono in ambito processuale la ricostruzione degli eventi  molto complessa e spesso distante dalla realtà. Capita così che le aule di tribunale raccolgano proiezioni a volte tanto grottesche che sembrano farsi gioco dell’intelligenza e della memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, degli uomini con cui hanno strenuamente lavorato e di quelli dopo di loro che hanno tentato di fare giustizia. Non ci si dimentichi di quanti, tra magistrati, agenti di polizia, carabinieri e civili nel contrasto alla mafia, hanno perso la vita per il rifiuto al dialogo, a cedere alla pressioni e al compromesso.

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