Vladimiro, una vita a tuttosport
A venti anni dalla sua scomparsa, il vivido e commosso ricordo del fratello Benvenuto che ne ha raccolto il testimone
di Benvenuto Caminiti
Giornalisti si nasce o si diventa? Non esiste una risposta “seria” a questa domanda, tanto da doverla considerare, alla fine di estenuanti ragionamenti e sterili contorsionismi cerebrali, del tutto retorica.
Poeti si nasce o si diventa? Questa sì è una domanda “seria” ed è facile la risposta. Poeti si nasce, non c’è altra strada. Ma giornalisti? Mi verrebbe da rispondere: No, giornalisti si diventa, perché non serve avere qualità speciali per fare questo mestiere. O per riuscire a farlo almeno in maniera dignitosa.
Giornalisti si diventa, perché è un “mestiere”, mica un’arte, una vocazione irresistibile, una voce che sai ascoltare solo tu che fai il poeta, e nessun altro. Così, quando mi chiedono di mio fratello Vladimiro, giornalista sportivo da sempre, direi da quand’era bambino, io dico: lui sì, lui ci nacque giornalista, non ci diventò. Non diede tempo al tempo, perché sin da ragazzino – avrà avuto 15 anni, forse meno – già scriveva da giornalista per un giornale. Anzi, a ben definirlo, un giornalino. Un giornaletto. Per la precisione, un quotidiano: un quaderno a righe, uno di quelli dei tempi, con la copertina nera zigrinata. Un quaderno al giorno. Giorno per giorno. “Usciva” pure la domenica e le feste comandate. Lo compilava tutto lui, dalla prima all’ultima parola, virgole comprese. E tutto con la penna intinta nell’inchiostro come si usava allora.
Voglio ricordarlo oggi il mio grande fratello, perché da ieri sono vent’anni che non c’è più, stroncato da un male incurabile (quel male incurabile che, passano gli anni, i decenni, si arriva sulla Luna e pure su Marte, magari oggi ti dà qualche chance, ti concede qualche speranza, ti lascia più tempo per pensare e per penare, ma alla fine ti uccide: oggi, come vent’anni fa): era il 5 novembre del 1993 e all’alba Vladimiro si spense su un lettino d’ospedale, a Torino. Che era diventata la “sua” città, quella che l’aveva consacrato come la firma più illustre del giornalismo sportivo dei tempi, dopo il grande indimenticabile Gianni Brera.
Lui, ragazzino palermitano del rione Montalbo, lasciava di stucco i suoi professori del Liceo Classico Garibaldi con i suoi temi pieni di fantasia e sentimento, scritti con uno stile ardito, dati i tempi e l’età. Ogni suo tema veniva letto in classe e a farlo non era un professore come tanti, ma un autentico “Maestro” come il professor Geraci della sezione “A”: ” Ragazzi – annunciava, appena entrato in aula, con il malloppo dei compiti ancora stretto sotto l’ascella – oggi prima di cominciare la lezione del giorno voglio leggervi il tema del vostro compagno Caminiti. Fate attenzione e cercate di imparare!” Cominciava a leggere che aveva già la voce rotta per l’emozione e, alla fine, diventava quasi un singhiozzo: i temi di Vladimiro, sin da quei tempi remoti, suscitavano emozione e ancor di più commuovevano. E non perché raccontassero storie o vicende tristi o strazianti, ma perché raccontavano la vita con sentimento sorgivo e uno stile impeccabile: semplice e profondo nello stesso tempo.
Uno così, nato con la poesia della vita racchiusa nel cuore, di qualunque cosa scrivesse non poteva che lasciare il segno. Lui s’innamorò subito del calcio, quello che gli giungeva dalla voce roca, inconfondibile, di Nicolò Carosio, che alla radio trasmetteva le partite della Nazionale. E quando ci si innamora, si segue la scia. E Vladimiro lo fece, com’era possibile a quei tempi, gli anni quaranta appena cominciati. E usò i suoi quaderni, uno al giorno: ogni giorno la partita ascoltata alla radio e reinventata con la sua febbrile incontenibile e quasi sempre tenera e toccante fantasia. Poi scoprì il “Calcio Illustrato”, settimanale milanese che racchiudeva in una volta sola le cronache delle partite della domenica del campionato di Calcio. E le raffigurava, per lo più, con le vignette dei gol del celebre “Silva”.
Lui, se possibile, faceva ancora di più, andava oltre: il lunedì, le partite” le raccontava a modo suo, ispirandosi ai commenti letti sul settimanale e gli altri giorni si sbizzarriva, che era la cosa che gli riusciva meglio, da dio, perché dava briglia sciolta al suo bene più prezioso: la fantasia. E così nascevano i racconti delle tappe del Giro o del Tour, dei quali conosceva solo le brevi, struggenti radiocronache di Mario Ferretti, i suoi canti gloriosi sul “Campionissimo”, che cominciavano sempre così: “Un solo uomo è al comando . la sua maglia è bianco celeste . il suo nome è Fausto Coppi”.
Su quell’esile traccia Vladimiro era capace di raccontare tutta la tappa ed altro ancora e vi assicuro e garantisco – anche se ero solo un pischello – che si trattava di “roba” strepitosa, da lasciarti sempre col cuore gonfio d’emozione. Tanto che divenne per me un obbligo – e sottolineo obbligo – seguire le orme, appena possibile. Cioè subito, anche se non avevo ancora dieci anni. Ricordo la festa privata (panelle e crocchè, delle quali era ghiottissimo) che organizzò a casa, complice la partenza estiva per i suoi tour musicali di nostro padre, per annunciare a tutti gli amici-ammiratori del rione, che anche il suo giornale aveva il suo piccolo “Silva”: aveva coinvolto, seducendolo con la sua alata parlantina, l’amico e compagno di banco, del quale – il tempo è crudele – ricordo solo il nome: Nuccio. Insieme, rifecero il “Calcio Illustrato” – versione e grafica del tutto artigianali – con i suoi commenti, e gli schizzi dei gol di quest’ultimo.
Questo era mio fratello Vladimiro, questo fratello voglio ricordare ora a vent’anni dalla scomparsa, quello. meno conosciuto dai tanti (tutt’oggi) suoi fans, lettori innamorati persi dei suoi lirici pezzi su “Tuttosport”: quasi sempre la Juventus, ma anche il Giro d’Italia e il Tour de France. E ne scriveva sempre con l’innocenza, il candore, la purezza del bambino che non volle mai crescere. Che non volle mai abbandonare la sua vena poetica, che gli veniva naturale, una sorgente inesauribile, che gli rese lieve la vita e la rese ancora più lieve ai suoi lettori.
Ciao, fratello mio: mi manchi oggi come e più di sempre. Come quel primo Maggio del ’57 che lasciasti Palermo e “Sicilia del Popolo”, dove curavi praticamente da solo, e non avevi neanche vent’anni, la pagina dello Sport. E lasciasti anche me. Con una promessa, strappata a sangue caldo (il tuo) e lacrime cocenti (le mie, povero ragazzino): “Quando avrai preso la maturità classica – andavo anch’io al Garibaldi – ti chiamerò a “Tuttosport” e insieme conquisteremo il mondo!”. Non vi dico, per timidezza e un po’ di pudore, com’è finita. Vi dico solo che le favole e la vita vera raramente si incrociano.