Pubblicato: Sab, 11 Mag , 2013

Trentacinque anni e sembra ieri.

A 35 anni dall’assassinio di Peppino Impastato

 

 

di Salvo Vitale

NEWS_13420410 maggio 1978: davanti alla casa di Peppino, a partire dal primo pomeriggio, c’era un gruppo di persone. Il nostro avvilimento, la nostra tristezza era legata non solo alla perdita di un amico, ma anche al modo in cui si stavano conducendo le indagini, con le quali il baldo maggiore Subranni sperava di trovare, nella profonda Sicilia mafiosa, un gruppo di terroristi emuli delle bravate delle Brigate Rosse. Arrivarono i resti di Peppino, sottoposti prima ad l’autopsia: si trattava solo del troncone di una gamba, perché il resto era stato polverizzato. A “Casa 9 maggio”, (d’ora in avanti, sia pure in modo unilaterale, la chiameremo così, perché ci siamo stancati di chiamarla ex-casa Badalamenti ed essere costretti a nominare abitualmente il nome di un mafioso assassino), esponiamo una mostra che rappresenta momenti di quel giorno, quando ci sostituimmo alle forze dell’ordine e ci mettemmo a fare le indagini:
arrivammo sul posto, vedemmo la macchina di Peppino, che era stata lasciata lì, senza alcun rilievo delle impronte, raccogliemmo, per terra, sulle agavi, sui fili dell’alta tensione, i resti di Peppino, lasciati in pasto ai corvi, ne riempimmo tre sacchetti, che la sera consegnammo al prof. Ideale del Carpio, direttore dell’istituto di medicina legale di Palermo. Poi cominciarono ad affluire dal fondo del corso, i tipi più strani, capelli lunghi, zaino, bandiere rosse. Quando arrivò la bara fu una pioggia di fiori, e allora, tra la folla, per la prima volta gettai un grido, uno slogan che poi ci siamo portati appresso in tutti questi anni: “Peppino è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”. Sapevo benissimo che di Peppino era rimasto ben poco, che era morto, che avevano tentato di far saltare in aria, con lui, anche le sue idee, ma sentivo anche che i lunghi anni di vita politica comune, avrebbero lasciato un segno indelebile della sua presenza .

Ogni anno, prima del corteo del 9 maggio penso che, come tutte le cose di questo mondo, anche la dinamica che ruota attorno a Peppino dovrebbe avere le caratteristiche, diciamo biologiche, di tutte le cose, ovvero dovrebbe invecchiare, come sono invecchiati i compagni di Peppino, come sono invecchiati tutti coloro che, a partire dai sognatori del 68 ad oggi hanno creduto che esistessero dinamiche di forte intervento dal basso per cambiare le regole della storia, cioè per costruire una società dell’uguaglianza. E ogni anno, inevitabilmente, constato che Peppino è rimasto giovane, che giovani, e non solo anagraficamente, sono la gran parte di coloro che partecipano al corteo, che giovani sono “le nostre idee” che “non moriranno mai”. Conosco molti compagni che vengono da ogni parte d’Italia per “rigenerarsi”, per “ricaricarsi” dopo tempi di delusioni, di sconfitte e di amarezze, per tornare a fare un bagno in quelle idee nelle quali in passato hanno creduto e che poi sono state, piano piano occultate dalla quotidianità, dal martellamento mediatico, dall’abbandono progressivo di tanta gente che era con noi e che, piano piano, ci ha lasciato soli . E d’altra parte possiamo calcolare che oggi Peppino avrebbe sessantacinque anni, possiamo immaginare quel che avrebbe potuto essere: di fatto egli rimane un uomo di trent’anni, si è fermato a quell’età perché la sua vita è stata rubata in quel momento. La sua giovinezza non è quella di Antinoo, che si uccise a vent’anni, per rimanere giovane e bello nella memoria dell’imperatore Adriano, suo amante. Oltre la bellezza,la prestanza dell’età, in Peppino ci sono le “idee”, che si possono riassumere nelle due parole che il fratello Giovanni ha fatto scrivere sulla sua tomba: “comunista rivoluzionario”.
Dove il comunismo non à quella parola “offensiva” che un l’uomo più ricco d’Italia, un salame imbragato, ha fatto diventare, snaturandone il significato, soprattutto per cautelare la sua condizione. Comunismo non è la lontana utopia che il riformismo socialista ha escluso, rilegando ” Marx in soffitta”, come diceva Turati.
“Il comunismo non è un oggetto di libera scelta intellettuale, né vocazione artistica. E’ una necessità materiale e psicologica”. Così scrive Peppino. Il che significa che il comunismo è un elemento essenziale e basilare della condizione umana, legato alle caratteristiche biologiche dell’uomo, è un modo di esistere, è vita. E d’altronde, cosa c’è di più vicino alla natura se non la coscienza dell’uguaglianza, la consistenza di realtà in cui sia bandito il privilegio, si escluda la negazione di qualcosa al più debole, ci si senta parte di un tutto in cui ci siano uguali condizioni di partenza , senza mortificare le capacità singole? Forse che l’uomo nasce con tutti gli orpelli di cui si è circondato con la civiltà? Nasce nudo. Nascita e morte sono due tipiche situazioni di comunismo, di uguaglianza, anche se poi i resti del più ricco riposano nella piramide o in un’artistica cappella, mentre quelli del povero finiscono nella terra nuda. E comunque, il ricco non potrà mai comprare la vita: forse potrà solo allungarsela se riesce a trovare buoni medici e buoni protettori. Ma anche su questo, noi che siamo abituati a illuderci che “la legge è uguale per tutti” dobbiamo poi essere obbligati ad accettare il contrario, ovvero che “la furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa”.
E non sono bastati secoli di storia, per smontare questo assunto della diseguaglianza di fatto. Non secoli di cristianesimo a rendere concreta la condanna delle ricchezze nelle mani di pochi. Il comunismo, “necessità materiale e psicologica” conserva la caratteristica categoria marxista del materialismo storico, ma vi aggiunge quella “psicologica”. Senza bisogno di scrivere trattati, in una semplice frase, Peppino dice semplicemente che il comunismo è “condizione dell’animo”, è la situazione, per tornare a Marx, in cui “la felicità, la libertà dell’uno è condizione della libertà e della felicità di tutti”, in cui nessuno può essere libero o felice se accanto a lui o lontano da lui c’è qualche altro che non è libero o che soffre.
Come siamo lontani dall’arroganza di chi esibisce le sue ricchezze e la sua condizione per dimostrare di essere al di sopra di tutto e di tutti, ma soprattutto per non preoccuparsi minimamente di chi soffre e muore di fame. Certe distanze tra cristianesimo e comunismo diventano minime, se si esclude che il regno della presunta uguaglianza e della presunta giustizia per i cristiani è nell’aldilà, per i riformisti è un’ utopia , invece, per i comunisti, è un progetto che si realizza giornalmente attraverso le lotte e attraverso un continuo superamento dell’immobilità. Il comunismo di Peppino era, è quello di una sorta di comunità, che egli sognava di fare, costruendo in un suo terreno un centro dove avrebbero potuto ritrovarsi tutti i rivoluzionari del mondo.
E qua siamo all’altro termine “rivoluzionario”. Non si tratta ipotizzare la rivoluzione come evento finale che, prima o poi dovrà arrivare, “l’addà venì Baffone”, degli stalinisti italiani. Non si tratta nemmeno del disperato che si arma per sparare su due carabinieri , davanti a Montecitorio, per uccidere un giornalista o per rapire, processare e uccidere il povero Aldo Moro, accumunato a Peppino nello stesso giorno della morte. Essere rivoluzionario è, prima di tutto “sentirsi rivoluzionario”,cioè, anche in questo caso, “una necessità materiale e psicologica,” un modo di leggere ogni momento della propria vita, ogni scelta, come un tassello, un frammento di cambiamento, uno stimolo costante di superamento dell’attuale momento di vita verso uno stadio successivo che comporti la liberazione progressiva di vincoli, orpelli, leggi, clausole, barriere che costituiscono la zavorra che impedisce il volo verso l’infinito. La fine dell’utopia, diceva Marcuse nel ’68. Insomma, una rinascita costante di riappropriazione di se stessi e di tutto quello che ci è stato sottratto nel corso della storia.
E’ come se, in questo momento, Peppino ci dicesse: guardiamoci in faccia, negli occhi, “na u biancu ri l’uocchi” prima di esplodere in una risata che ci faccia sentire più vicini, non monadi isolate, ma protagonisti di un insieme in cui non c’è più tempo né spazio per compiangersi, per intristire, per avvilirsi, per odiarsi, per azzannarsi, per incupirsi. Respingere il puzzo di morte che viene dai domicili dei mafiosi, dalle stanze del potere e della politica, dagli incunaboli dove si nasconde il delitto, l’odio, la sopraffazione. Proviamo a ridere, ora, adesso, e poi a rifarlo ogni qualvolta che il disgusto per le perversioni che ci circondano minaccia di soffocarci. Ridere del perbenismo borghese, dell’ipocrisia di tutti quelli che ci guardano disgustati, si voltano dall’altra parte, mormorano: “Ma chi vannu circannu? Chi vannu arriminannu ancora a merda n’cannistru? Ma che stanno ancora a fare, perché non si stanno a casa, invece di venire a disturbare la nostra quiete? Non hanno avuto tutto quello che volevano? Che vogliono ancora? Perché non ci lasciano in pace?”. Ridere delle persone in cravatta, di quelli che scendono dalla limousine o si fanno scortare, di quelli che obbediscono come pecoroni a tutti gli ordini, senza chiedersi se ce ne siano di sbagliati, ridere di chi ha bisogno di un capo cui asservirsi, di un pastore, e opertanto, accettare per se stesso il ruolo di pecora. E poi ricostruire, dalle ceneri di un circuito che comprenda politica, economia, banche, onorevoli, disoccupazione, morte, suicidi per l’impossibilità di portare avanti dignitosamente la propria vita, euro, ambizioni, droghe, pizzo, tangenti, rimborsi elettorali, ruberie vari e altre porcate: una società in cui si possa essere, come ci insegna Peppino, comunisti e restare sempre rivoluzionari.

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