Quel manifesto del comune di Petilia Policastro per la morte di Curcio
Era uno degli assassini di Lea Garofalo, ora il Comune del Crotonese fa un manifesto per il suo funerale
Succede anche questo in Calabria: un manifesto di vicinanza al dolore della famiglia per la morte di Rosario Curcio, uno degli assassini di Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia sequestrata e uccisa per essersi dissociata dalla famiglia ‘ndranghetista. Il manifesto di cordoglio è stato pubblicato dall’amministrazione comunale di Petilia Policastro, la cittadina del Crotonese di cui entrambi erano originari, in occasione dei funerali di Curcio. Condannato in via definitiva all’ergastolo nel 2014 per l’omicidio di Garofalo, è morto suicida in carcere lo scorso 29 giugno. “Il sindaco Simone Saporito e l’amministrazione comunale partecipano al dolore che ha colpito la famiglia Curcio per la perdita del caro congiunto” è la frase riportata sul manifesto del Comune, che nel processo peraltro è stato parte civile.
Sembra che l’amministrazione comunale avesse fatto un accordo con le agenzie di pompe funebri per partecipare con manifesti di vicinanza a tutti i funerali che si celebrano in città. Tuttavia, molti dubbi si sono sollevati circa l’opportunità di scrivere anche per Curcio. La mafia vive di simboli e pure i manifesti funebri possono rappresentare un inchino delle istituzioni.
Rosario Curcio si è impiccato nel carcere di Opera, dove stava scontando l’ergastolo per l’omicidio e la distruzione del cadavere della collaboratrice di giustizia, uccisa a Milano. Curcio era stato condannato in via definitiva per l’assassinio della donna, in concorso con il marito Carlo Cosco e Vito Cosco, Massimo Sabbatino e Carmine Venturino. La donna fu assassinata nel novembre 2009 e il corpo dato alle fiamme per far sparire ogni traccia. A decretarne la morte fu proprio il marito: non accettava la scelta di Lea di denunciare alle autorità i traffici illegali di Cosco, legato alla malavita organizzata calabrese. Nel 2002, la donna fu inizialmente ammessa nel programma di protezione, ma nell’aprile 2009 decise di rinunciare volontariamente alla tutela a seguito di una serie di vicissitudini legali che l’avevano estromessa dal sistema poiché ritenuta non attendibile. Scampata a un tentativo di rapimento a maggio 2009, a novembre viene attirata a Milano dal marito con il pretesto di parlare del futuro della figlia. Lea Garofalo sparisce nel nulla. Le indagini delle forze dell’ordine ricostruiscono le ultime ore della donna, rapita in viale Montello e portata in un casolare a Monza, dove venne torturata e infine uccisa. Per cancellare le prove il corpo venne bruciato. Nel marzo 2012 vengono condannati in sei: Carlo Cosco e suo fratello Vito all’ergastolo con isolamento diurno per due anni, mentre all’ergastolo con un anno di isolamento Giuseppe Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, ex fidanzato della figlia. Fu proprio Carmine Venturino, successivamente diventato collaboratore di giustizia, a far ritrovare i resti del cadavere in un terreno alla periferia di Monza. Secondo la difesa Lea Garofalo era scappata in Australia, ma a dimostrare che la donna non era mai partita furono i circa 2mila frammenti ossei recuperati in un terreno a San Fruttuoso. Dalle risultanze investigative emerse che nel cofano della Passat di Curcio, in uno scatolone, fu trasportato il corpo di Lea, dopo l’uccisione in un appartamento di Milano. Quasi decapitata, fu gettata in un fusto metallico, bruciata, mentre gli aguzzini, per accelerare la distruzione del cadavere, ne frantumarono le ossa con un badile ed un ferro da cantiere. Cenere e frammenti ossei furono poi gettati.
L’ergastolano suicida, per la cui morte il sindaco di Petilia Policastro e la sua amministrazione hanno espresso il loro cordoglio (salvo chiarire che il manifesto funebre fosse solo frutto di un “automatismo” provocato dalla convenzione tra il Comune e l’agenzia funebre), aveva agito con crudeltà ed efferatezza. I giudici milanesi lo ritennero colpevole di fatti connotati da «estrema gravità», espressivi «della mancanza di umana pietà nell’infierire perfino sui resti di una persona verso la quale l’imputato non aveva alcuna ragione di astio». E poi «l’intensità del dolo evidenziata attraverso il completamento dell’intero progetto delittuoso, la mancanza di qualsiasi segno di resipiscenza, impedirono il riconoscimento delle richieste attenuanti».
Nessuna «resipiscenza», nessun ravvedimento nel corso del processo, annotarono i giudici. Curcio muore dopo dieci anni. Quel manifesto funebre del Comune ora scatena le polemiche e lascia diverse perplessità. Sulla vicenda, d’altronde, resta altissima l’attenzione dell’Ufficio territoriale del Governo di Crotone guidato dal prefetto, come della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro dell’illustre dott. Gratteri e le forze dell’ordine, intenzionati ad approfondire, anche nell’interesse della ostentata buona fede dell’amministrazione comunale, che comunque rischia di provocare un arretramento della già difficile cultura antimafia in un territorio di ndrangheta.