La giornata politica: si fa sempre più difficile la tenuta della maggioranza
Letta torna da Washington e trova l’unità della maggioranza sempre più in bilico. Monti lascia, “tradito” dai suoi. Napolitano chiamato a testimoniare a Palermo nel processo sulla trattativa
Gli Usa non portano bene al presidente del consiglio Enrico Letta, che pure ha ricevuto un gratificante endorsment dal presidente Barack Obama: l’Italia sta andando nella giusta direzione. L’apprezzamento poteva essere un toccasana per il premier. Letta, proprio come Obama dopo lo shutdown e il rischio di default, sembrava aver superato un momento critico. E, invece, la legge di stabilità ha determinato una nuova scossa nella maggioranza di governo.
Mario Monti lascia Scelta Civica e passa al gruppo Misto del Senato. Undici senatori, in una lettera firmata anche da Pierferdinando Casini e dal ministro della Difesa Mario Mauro, lo hanno sfiduciato per le critiche rivolte alla manovra economica. Un pretesto, per chi ha memoria lunga. Lo scontro è interno al movimento e viene da lontano. Nel partito, sono noti i dissapori tra il presidente Monti e l’ala cattolica del movimento, che immagina un approdo europeo di Scelta Civica nelle fila del Ppe, il Partito popolare, più che in quelle dell’Alde, l’alleanza dei democratici e liberali d’Europa. Monti non gradisce: prediligere questa opzione significa aprire al dialogo con i moderati del Pdl (Formigoni, Lupi, Alfano). Per l’ex premier, le due forze politiche sono inconciliabili. Ma, i centristi sembrano essere già in movimento per dare vita a un nuovo soggetto politico. Che si fosse arrivati alla resa dei conti, Monti lo aveva capito quando erano circolate voci su un pranzo del ministro Mauro, presso il Circolo ufficiali delle Forze armate di via XX Settembre, con Berlusconi e Alfano. Sembra facile immaginare che, a tavola, si sia discusso anche del voto sulla decadenza del Cavaliere.
Il senso di unità della maggioranza traballa. Si registrano scricchiolii anche nel Pd. La decisione di Monti ha annacquato la notizia, che pure c’è, delle dimissioni, minacciate ma non rassegnate, del viceministro all’Economia, Stefano Fassina. Il numero due del Tesoro protesta per essere stato estromesso dai lavori preparatori sulla legge di stabilità, lamenta la mancanza di collegialità sul provvedimento, che è stato discusso mettendo da parte gli interventi a favore delle persone in difficoltà.
A fare da sfondo alle acrobazie per tenere in piedi le larghe intese, c’è poi la decisione della corte d’Assise di Palermo che, nel processo sulla trattativa Stato – mafia, ha ammesso a testimoniare il presidente della Repubblica. L’esame si limiterà ai contenuti della lettera inviata a Napolitano dal suo ex consigliere giuridico, Loris d’Ambrosio, che sentiva di «essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi» tra il 1989 e il 1993. Però, il codice di procedura penale pone a carico del teste, al contrario di quanto faccia per l’imputato che può avvalersi della facoltà del silenzio, l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli vengono rivolte. Giorgio Napolitano, quindi, dovrà rispondere ai giudici, al pubblico ministero, agli avvocati della difesa e delle parti civili. In via pur solo teorica, il capo dello Stato potrebbe essere esposto a domande poste in chiave provocatoria o assertiva di una tesi precostituita che potrebbe gettare ombre sulla sua persona. Un rischio che il Quirinale, una volta lette le carte, cercherà di scongiurare, valutando l’opportunità di ricorrere alla Consulta per conflitto di attribuzione. Ieri, in una nota stringata, il Colle ha affermato che, se le richieste della corte d’Assise di Palermo saranno ritenute pertinenti, sarà massimo il rispetto istituzionale.