Una tomba per le lucciole: storia di un orrore moderno.
Una tomba per le lucciole di Isao Takahata propone 85 minuti densi e strazianti.
“In una sera di Settembre 1945 muoio”
Il neonato Studio Ghibli nel 1988 dava alla luce due dei suoi capolavori. Prodotto e anche proiettato congiuntamente con Il mio vicino Totoro del maestro Miyazaki,
Un lavoro d’epoca ancora di grande atttualità, tratto dall’omonimo racconto autobiografico di Akiyuki Nosaka, autore distrutto dal senso di colpa per aver perso la sorella minore nel Giappone del 1945. Forte realismo, che scende nel dettaglio per raccontare una storia comune a migliaia di bimbi. Non è la guerra combattuta, ma quella subìta.
La struttura circolare, dell’inizio che spiega la fine, è un gioco di aranciati e marroni, come una vecchia pellicola ed un ricordo lontano. La mancanza di colori, i contesti immediatamente cupi e grigi sottolineano la serietà della narrazione. Le musiche sono infinitamente tristi e avvolgenti. Gli aerei da guerra invadono i primi fotogrammi.
Il quattordicenna Seita e la piccola Setsuko di appena quattro anni sono due fratelli che cercano di sopravvivere tra gli attacchi della Seconda Guerra Mondiale in un Giappone ormai allo stremo. Quello che si racconta è uno spaccato, da giugno a settembre 1945, pochi mesi che però cambiano tutto. Nella realtà, Kobe subì tre grandi attacchi, quello del 5 giugno contò 11.000 morti e 21.000 feriti.
Nel film, i genitori non sono presenti. La mamma viene colpita dai bombardamenti. Muore davanti agli occhi del figlioletto. Le larve fuoriescono dalle bande insanguinate, il corpo è dilaniato dalle granate. Anche il padre, ufficiale della Marina Imperiale, è lontano. Seita e Setsuko sono soli contro il mondo.
Il ragazzino è un action hero irrisolto, in sintonia con il Ciclo dei Vinti (Verga, 1881), qualsiasi suo tentativo di recupero viene duramente stroncato dagli eventi. Tenta di prendersi cura di Setsuko, la protegge fin dal primo istante, anche nascondendole le notizie più terribili, con grande amore fraterno. La città è completamente distrutta. Migliaia di corpi carbonizzati sono sparsi per strada, cadaveri di bambini accartocciati e ricoperti dalle mosche nell’indifferenza dei passanti. Anche se non si ha più nulla, ci si considera fortunati ad essere vivi. La morte è maleodorante, associata agli insetti; il netturbino dice che è “schifo, sporcizia”.
Viene ritratta un’umanità egoista ed indifferente alle sofferenze. Non una fiaba, ma il mondo reale, che dà il peggio di sé senza scrupoli e solidarietà, in contrasto con la purezza d’animo dei piccoli.
Il tema dell’insensibilità degli adulti emerge forte: è una gelida società, dominata dal calcolo dei propri interessi. Il film è la voce di un grido di dolore inascoltato.
La zia, nell’immaginario collettivo parente vicina ed amorevole, è invece scocciata nell’avere in casa i due orfanelli. Non perde occasione per essere sgradevole e farli soffrire, trattandoli come ospiti indesiderati. “Vorrei proprio sapere perché chi sta a casa tutto il giorno a grattarsi la pancia dovrebbe mangiare come chi lavora per la patria, non mangerete più riso se non ve lo sarete guadagnato”.
I fratellini cercano tra le rovine beni di qualche utilità, cuciono vestiti, vanno anche a comprarsi il necessario per poter cucinare; ma poi preferiranno rifugiarsi in una caverna senza la crudele zia.
Brutalmente picchiato per aver rubato una manciata di patate e pomodori, il ragazzo è sempre più disperato e sconfortato. Mentre tutti si nascondono nei rifugi, saccheggia le case mettendo a rischio la vita pur di prendere qualcosa per nutrire la bimba. “C’hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame..” (De Andrè, 1973).
L’angusto rifugio si trasforma con fantasia e voglia di sorridere, come solo i bambini riescono a fare. Il gioco, la caramella o un abbraccio diventano preziosi, perché non si può togliere tutto in un mondo così orribile. Un’altalena fatta alla meglio, rane bruciacchiate e una zuppa puzzolente, ma ci si adatta (poi declinato in La vita è bella, Benigni 1997).
Il loro amore incondizionato è l’unico capace di trasmettere tenerezza in un panorama di desolazione e crudeltà. La paura, la mancanza di soldi, i furti, la fame. Questa notte spaventosa (per loro e per l’umanità) è rischiarata solo dai flebili bagliori delle lucciole, portatrici di sogni e speranze.
I dialoghi sono basici: “pipì, fame, sete, mamma, cibo, soldi, lavoro…”, gli uomini regrediscono alle necessità primarie, si imbruttiscono.
Le polpette con terra e fango, universalmente comuni a tutti i bambini che giocano, diventano struggente disperazione. Ma di fame si muore. Lo spicchio di anguria arriva tardivamente.
Alcune ragazze ben vestite tornano a casa, lamentano la mancanza del bel paesaggio e della musica del grammofono. I grattacieli della città svettano nello skyline. C’è chi ha perso tutto.
Uno straziante viaggio a ritroso tra le riflessioni su quel che avrebbe potuto essere. Tutto è già successo, tutto è trapassato.
La sera del 21 settembre 1945, nella stazione ferroviaria di Kōbe, un ragazzo muore di fame nell’indifferenza dei passanti. Tutto quello che possiede è soltanto una scatola di latta. Il netturbino schifato ed annoiato, smuove il cadavere, prende e getta la latta: era quella delle caramelle di Setsuko. Improvvisamente compaiono nuovamente tante lucciole, il fantasma della bambina presto viene abbracciato da quello del fratello. Gli spettri di Seita e Setsuko guardano la metropoli, che ha costruito la propria nuova ricchezza su grandi ingiustizie. Molti sono stati privati dell’infanzia e della vita.
Anime pure ricongiunte, in un treno diretto verso un posto migliore.
“…per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti” (De Andrè, 1973).