Trattativa Stato-mafia, il pentito Giuffrè: «Nel ’91 fu decisa la resa dei conti»
Ricordando l’omicidio Lima, cita Mao Tse Tung: «Colpirne uno per educarne cento»
«Nel ‘91 partecipai alla famosa riunione della resa dei conti di Cosa nostra dove si decise l’eliminazione dei politici ritenuti inaffidabili, come Lima, i Salvo, Mannino, Vizzini e Andò, e i magistrati ostili come Falcone e Borsellino». È l’inizio della strategia stragista: una vera e propria dichiarazione di guerra a traditori e nemici, pronunciata dal boss Totò Riina in una drammatica riunione del dicembre di 22 anni fa, avvenuta a Palermo presso l’abitazione di un certo Guddo e alla quale partecipò la Commissione regionale di Cosa nostra al gran completo. A raccontarlo è il pentito Nino Giuffrè, che ha deposto oggi al processo sulla trattativa Stato-mafia.
Quella riunione, definita dallo stesso Giuffrè «glaciale, in cui non si sentiva volare nemmeno una mosca», fu voluta da Riina nel momento in cui si rese conto che gli “affari” di Cosa nostra stavano per mettersi male. Il boss corleonese era infuriato poiché «ci aveva rimesso la faccia». «Mettiamoci in testa che dobbiamo farci la nostra bella associazione, ma di ergastoli manco a parlarne», aveva garantito tracotante ai vari capi mandamento in riferimento al maxi processo. Questo, infatti, sarebbe dovuto essere «un fuoco di paglia» e invece, ancor prima della sentenza definitiva (emessa il 30 gennaio del ’92), era chiaro a tutti come sarebbe andata a finire, per via anche del cambiamento della sezione della Cassazione che avrebbe giudicato. «Si era saputo che non sarebbe stato più Carnevale (il giudice Corrado Carnevale fu in seguito anche lui accusato di collusione con la mafia e infine prosciolto, Ndr.) – dichiara Giuffrè – e così le voci che la sentenza sarebbe andata male si fecero sempre più insistenti e di lì a poco i dubbi divennero certezze».
Alla domanda del pm Del Bene se qualcuno avesse o meno sollevato delle perplessità durante la riunione, Giuffré ha risposto che bastò l’assoluto silenzio per dare il consenso a Riina. Rimaneva comunque «la brutta figura fatta anche con i parenti di chi si trovava in carcere, come Michele Greco». Il capo dei capi aveva vinto tante battaglie, ma stava perdendo la guerra: senza più l’appoggio politico che fino ad allora era assicurato, lo Stato si stava dimostrando il potere più forte, impossibile da vincere. E allora «andavano eliminati tutti gli avversari di Cosa nostra: chi aveva abbandonato, chi aveva tradito e chi vi si opponeva strenuamente, come gli “acerrimi nemici” Falcone e Borsellino».
«Ucciderne uno per insegnare a cento», spiega ancora il pentito ex braccio destro di Provenzano, parafrasando addirittura Mao Tse Tung, per spiegare le motivazioni che portarono alla decisione di eliminare l’europarlamentare Dc Salvo Lima, ucciso a Mondello nel marzo del ’92. «Cosa nostra voleva punire il politico che si era dimostrato inaffidabile e, con quell’omicidio, lanciare un chiaro segnale a tanti altri personaggi politici. Primo fra tutti Andreotti, ma anche Martelli e altri».
Della decisione di uccidere Lima ne era stato informato anche Bernardo Provenzano, ancor prima della riunione del Natale ’91. Zu Binu sapeva sempre tutto, anche se non era mai presente alle riunioni. Ad assicurarlo sarebbe stato lo stesso Riina a Giuffrè: «Una volta Totuccio (Riina, Ndr.) mi disse: “Possiamo avere vedute diverse, ma nel momento in cui ci alziamo dal tavolo siamo in perfetta sintonia».
Ma improvvisamente qualcosa cambia. Prende corpo, con una violenza che non consente sconti per nessuno, la strategia stragista di Riina: nel ’92 vengono uccisi Falcone e Borsellino; nel ’93 tocca a don Pino Puglisi (il prete antimafia di Brancaccio, roccaforte dei fratelli Graviano); nello stesso anno avvengono gli attentati di via Georgofili a Firenze, quello di via Palestro a Milano, e quelli di piazza San Giovanni in Laterano e in via San Teodoro a Roma; nel ‘96 viene sequestrato e poi sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo. «La violenza aveva passato lo Stretto di Messina». Anche se nel ’93, precisa Giuffrè in videoconferenza, si decise per una “tregua” per via anche dell’arresto di Riina.
Il pentito prosegue nel suo racconto e ricorda come poco dopo la sua scarcerazione si incontrò con Provenzano. «Avevo lasciato un soldato e trovo un uomo completamente diverso. Direi quasi “riciclato”, “vergine”. Continuava a dire che si doveva mettere da parte l’attacco frontale di Cosa nostra allo Stato, perché contro lo Stato si perde. Ascoltandolo sembrava che tutte le colpe fossero di Totò Riina. Non ne condivideva più le scelte e ne abbandonò la strategia. Non bisogna fare più ‘scruscio‘. Provenzano decise quindi di dire basta agli attacchi mafiosi allo Stato e di avallare una “strategia della sommersione”». E ha aggiunto: «Io ero perfettamente d’accordo con lui. Non si poteva continuare con le bombe, perché si esce con le ossa rotte».
La strategia della sommersione consisteva nel non esporsi troppo, per non danneggiare Cosa nostra né i politici che l’avrebbero appoggiata. «Bisognava ritornare nell’ombra perché fosse la politica la forza principale. Mentre Riina voleva che fosse lui e questo fu il suo danno». «Calati juncu ca passa la china», soleva ripetere Provenzano. Abbassarsi come un giunco, finché non passa la piena.
Giuffrè racconta poi di come, già agli inizi degli anni Ottanta, «ci fosse il sospetto tra alcuni di noi che Provenzano e la moglie avessero rapporti con gli “sbirri”, cioè con le forze dell’ordine. Io non avevo notizie ufficiali, ma era una voce che correva da tempo. I più vecchi negli anni Ottanta dicevano di stare attenti a Provenzano sia per le tragedie che per la sua “sbirritudine”. Io misi insieme quelle voci con le altre che poi in seguito, negli anni Novanta, arrivavano da Catania. Si parlava anche di vicinanza agli sbirri della moglie di Provenzano. Si diceva insomma che Provenzano passasse notizie agli “sbirri” tramite la moglie».
I sospetti di “sbirritudine” erano avvalorati dal «susseguirsi di arresti anormali». «Era come se improvvisamente ci fosse qualcuno che indicasse i luoghi dove si trovavano i latitanti». Fu così che si comincia a dubitare seriamente che dietro le quinte di Cosa nostra qualcuno favorisse gli arresti degli esponenti della strategia stragista. Se non si trattava di Provenzano (direttamente, almeno), doveva trattarsi di Vito Ciancimino. «Quando chiesi conferma a Provenzano, lui mi rispose: “Stai tranquillo. Ciancimino è in missione per noi”». Fu lui infatti, secondo quanto ribadito oggi da Giuffrè, ad intrattenere rapporti con le forze dell’ordine in modo da favorire Cosa nostra. Fu tramite lui che Provenzano, «regista interno di queste interlocuzioni», vendette Riina allo Stato, o, più precisamente, «a quella parte di potere politico che per alcuni versi era già vicino a Cosa nostra e che ha voluto punire Riina per essersi permesso di sferrare l’attacco violento delle stragi». Lo Stato, con tutti quegli arresti, ci aveva guadagnato l’eliminazione della frangia più pericolosa di Cosa nostra, mentre Provenzano ottenne protezione e «l’allentamento delle maglie repressive», come l’attenuazione del 41 bis e la modifica della legge sui collaboratori di giustizia.
Con la strategia della sommersione inizia quindi una nuova era per Cosa nostra, alla ricerca di nuovi interlocutori politici dopo Lima e Martelli. Li troverà in Marcello Dell’Utri e nel nuovo movimento che stava nascendo e cioè Forza Italia. «Dell’Utri era in contatto con Brancaccio e coi fratelli Graviano. Era il tramite tra la mafia e Silvio Berlusconi e tutti noi ci adoperammo per dare un appoggio elettorale a Forza Italia con la speranza di trarne dei vantaggi. Non si fa mai niente per niente – ha concluso Giuffrè – benché meno in Cosa nostra».