Strasburgo condanna l’Italia: violati diritti di Bruno Contrada
Secondo la Corte Europea dei diritti umani la detenzione dell’ex funzionario del Sisde tra il 2007 e il 2008 era «incompatibile» con il suo stato di salute
La Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha dato ragione a Bruno Contrada, rilevando la violazione da parte dell’Italia del divieto di trattamento inumano e degradante nella detenzione dell’ex prefetto, a dispetto delle sue ripetute richieste di clemenza per far fronte a problemi di salute.
Contrada, ex numero tre dei servizi segreti civili (SISDE) fu condannato in via definitiva a 10 anni di reclusione nel 1996 per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2007 Contrada aveva presentato ai tribunali italiani decine di referti medici per chiedere di porre fine o sospendere la sentenza per motivi di salute, ma le sue richieste furono respinte. Nel 2008 gli furono concessi gli arresti domiciliari e, poco tempo dopo, a tale provvedimento seguì la scarcerazione.
Ieri i giudici di Strasburgo gli hanno dato ragione e hanno stabilito che lo Stato italiano si è reso colpevole della violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che proibisce ogni trattamento penale degradante. In particolare, l’Italia è stata condannata per aver tenuto l’ex poliziotto in prigione tra il 24 ottobre 2007 e il 24 luglio 2008, nonostante il suo stato di salute fosse «incompatibile con il regime carcerario cui era sottoposto». In quel periodo era detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.
Nella sentenza, che diventerà definitiva fra tre mesi se le parti non chiederanno e otterranno una revisione, i giudici hanno stabilito che lo Stato deve a Contrada, oggi 82enne, 10mila euro per danni morali (invece dei 25mila da lui comandati) e 5mila per le spese processuali.
«È la prima parziale vittoria, ma noi continueremo a lavorare, giorno e notte, fino ad ottenere giustizia con la revisione del processo. Io prego affinché questo avvenga», ha dichiarato il legale di Contrada, l’avvocato Giuseppe Lipera. L’ex funzionario napoletano ha infatti un altro ricorso pendente a Strasburgo, contro l’accusa di associazione mafiosa. Secondo lui questo reato non esisteva al tempo in cui avrebbe commesso i fatti imputatigli. Commentando la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha ricordato che si tratta «solo di una sentenza di primo grado che può essere ancora appellata. Il vero motivo di soddisfazione sarebbe un eventuale accoglimento del mio ricorso per l’accusa di associazione mafiosa. La Corte europea può fare giustizia. Lo Stato italiano ha celebrato un processo violando alcune norme di legge. È una vicenda molto complessa e le nostre argomentazioni sono tante. Non poteva essermi contestata l’accusa di associazione mafiosa».
Sempre davanti ai giudici della Corte europea pende anche un altro ricorso: quello presentato dai legali di Bernardo Provenzano. Attraverso i propri avvocati, i familiari del boss di Cosa nostra chiedono la condanna dell’Italia per «il trattamento carcerario disumano» che sarebbe imposto a Provenzano, viste e considerate le sue condizioni di salute. La Corte ha chiesto una serie di documenti e approfondimenti al Governo italiano.