Strage via D’Amelio, Lo Forte: «Scene di guerra mai viste»
Il procuratore ascoltato come teste al processo Borsellino Quater in corso a Caltanissetta. «Disappunto per l’indagine su Mutolo, ma Paolo non mi disse mai di sentirsi tradito»
«Dopo la notizia dell’attentato a Paolo Borsellino, andai immediatamente in via D’Amelio. Ero sconvolto. Era una tragica e mai vista scena di guerra. Mi misi a piangere quando vidi delle membra sparse che circondavano il luogo in cui era esplosa l’autobomba. C’erano braccia e gambe sull’inferriata dell’edificio che, mi si disse dopo, erano dell’agente di scorta Emanuela Loi. Era uno scenario superiore a qualsiasi possibilità di raziocinio». A parlare è il procuratore di Messina Guido Lo Forte, ascoltato questa mattina in qualità di teste al processo Borsellino Quater, volto ad accertare la verità sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992.
Davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta Lo Forte, che all’epoca dell’uccisione del giudice Paolo Borsellino era sostituto procuratore a Palermo, ha ricordato anche della gestione della collaborazione del pentito Gaspare Mutolo, affidata dall’allora procuratore Pietro Giammanco all’aggiunto Vittorio Aliquò. «Mutolo, nel prospettare la sua intenzione di collaborare con la giustizia, fece sapere di voler parlare con Borsellino, cosa che spinse Giammanco a disporre, nella delega ad Aliquò, una clausola che prevedeva una sorta di coordinamento con Paolo Borsellino. […] Paolo mostrò un certo disappunto per non essere stato investito formalmente delle indagini relative a Mutolo, tanto che con una battuta ci disse che era inutile che lui partecipasse agli interrogatori». Come ha ribadito oggi il procuratore di Messina, la collaborazione di Mutolo iniziò formalmente il 1° luglio del ’92. A quel primo interrogatorio partecipò il giudice Borsellino (così come ai due successivi, avvenuti il 16 e il 17 luglio). Rispondendo alle domande dei pm, Lo Forte ha detto che Borsellino, mentre era in corso il primo dei tre colloqui con il pentito Mutolo, dovette allontanarsi per alcune ore, perché, riferì il giudice ai colleghi, doveva recarsi al Ministero dell’Interno. Il teste non ha saputo dire se, durante le pause degli interrogatori successivi, Borsellino incontrò l’ex dirigente del Sisde Bruno Contrada e il capo della polizia Vincenzo Parisi. «Dopo la strage – ha spiegato – seppi che si era diffusa la voce secondo la quale Mutolo aveva anticipato a Borsellino di avere cose da dire su Contrada e sul pm Domenico Signorino». Il primo fu poi condannato in via definitiva a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, mentre il secondo si suicidò con un colpo di pistola alla tempia pochi mesi dopo che l’ex boss Mutolo confidò a Borsellino che l’amico-collega era colluso, così come lo stesso Contrada.
«La notizia secondo la quale Mutolo aveva manifestato la volontà di collaborare con la giustizia credo che trapelò dalla Procura di Firenze», ha detto ancora Lo Forte, che poi ha aggiunto: «Mutolo aveva considerato come suo primo interlocutore virtuale Giovanni Falcone e successivamente Paolo Borsellino. Il 16 luglio, tre giorni prima della strage di via D’Amelio eravamo a Roma per gli interrogatori a Mutolo. La sera andammo a cena. Oltre a me, c’erano Borsellino, il pm Gioacchino Natoli e l’onorevole Carlo Vizzini. Durante la cena, Vizzini parlò di Angelo Siino. A guisa di una sua personale valutazione, sostenne che Siino era stato effettivamente un protagonista della manipolazione degli appalti».
A proposito della strage di Capaci, e in particolare alle successive indagini, il magistrato ha spiegato di aver sentito parlare delle intercettazioni di via Ughetti a Palermo, in cui si parlava di un «attentatuni». Tuttavia, ha sottolineato: «Escludo che di questo se ne parlò nel giugno del ‘92». Ricorda però che Paolo Borsellino, dopo la strage che uccise Giovanni Falcone, manifestò la sua delusione per la mancata nomina di quest’ultimo a procuratore nazionale antimafia, «ma non mi parlò mai di essersi sentito tradito da qualche suo collega». «Borsellino – ha aggiunto – considerò anche il contesto in cui si verificò la strage di Capaci, ovvero mentre l’Italia si accingeva ad eleggere il presidente della Repubblica. Sicuramente aveva un’agenda, non ricordo il colore, dove spesso, nel corso della giornata, annotava degli appunti». Il procuratore ha precisato, infine, che «Borsellino non escludeva che dietro la strage di Capaci ci fosse un piano di destabilizzazione, anzi, come dicevamo noi di stabilizzazione. Lui pensava a tante cose, non ad una sola. La sua mente lavorava continuamente su ciò che poteva aver causato una tragedia del genere. La sua opinione era che l’omicidio di Falcone, fatto in quel modo, doveva avere un significato che andava al di là degli interessi di Cosa Nostra circoscritti in un perimetro criminale».