Spatuzza: «La paura mi impedì di parlare subito di Berlusconi»
La difesa di Dell’Utri: «Le accuse sono tardive». Prossima udienza: il 27 marzo dall’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo
Si è svolta questa mattina l’ultima udienza della trasferta romana della Corte d’assise e del pool antimafia di Palermo all’aula bunker di Rebibbia per il processo sulla trattativa Stato-mafia, proseguita con il controesame del super pentito di Cosa nostra Gaspare Spatuzza.
Sollecitato dalle domande degli avvocati della difesa, l’ex killer di Brancaccio chiarisce il perché della sua scelta di iniziare a collaborare con la giustizia soltanto nel marzo 2008, e cioè a distanza di ben undici anni dal suo arresto. «Di fronte a tutte le macerie che mi portavo dietro – ha detto Spatuzza –. È stato un percorso molto sofferto, maturato. Ad un certo punto sono arrivato a un bivio. Dovevo mettere tutto a posto. Non mi bastava più il ravvedimento personale, ma dovevo mettermi la coscienza a posto anche con la legge e quindi ho deciso. E sono fiero di aver maturato undici anni di 41 bis. Nel 2008 ero libero, tranquillo e così, anche se avevo timori più che motivati, iniziai una piena collaborazione con lo Stato».
Timori, specifica il pentito, scaturiti dalla «questione famigliare» e non dalla situazione politica del momento e che continuerà ad avere a collaborazione appena avviata. Prima del 2008, chiarisce, «non mi sentivo tranquillo per collaborare, ho avuto colloqui investigativi: quando mi cercavano io mi presentavo e parlavo, ma la collaborazione non rientrava nelle mie decisioni, anche per questioni legate alla mia famiglia». In apertura d’udienza, Spatuzza spiega le proprie paure citando alla Corte due documenti: uno stralcio del verbale della Commissione centrale dal quale risulta la revoca del programma di protezione e il rigetto della richiesta di accedere al programma definitivo, e il documento del settembre 2011 che ammette il pentito al programma di protezione. «La questione Spatuzza faceva così tanta paura che nello stesso periodo è stata fatta una legge il 13 agosto 2010 che ha introdotto modifiche».
«Se il governo Prodi cadeva prima, non lo facevo – aggiunge Spatuzza rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Di Peri –. Quando prima di fare l’interrogatorio congiunto (alla presenza delle tre Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo, ndr) io mi ritrovo come presidente del Consiglio Berlusconi e come ministro della giustizia Alfano, con tutto il rispetto, non voglio insinuare delle cose che non so, però i miei timori si accentuano ancora di più… io mi dovevo alzare dalla sedia, stringergli la mano e dirgli: “Signori miei, scusatemi se vi ho disturbato”».
È in quel momento che iniziano per Spatuzza le remore relative anche alle figure politiche del periodo e che lo spinsero a non parlare subito di Berlusconi e Dell’Utri, nominati da Giuseppe Graviano durante l’incontro al bar Doney di Roma nel 1994 per la preparazione dell’attentato, poi fallito, allo stadio Olimpico. Spatuzza ne parlerà, infatti, solamente l’anno successivo, il 16 giugno 2009.
Eppure già nel 1997, nel corso di un colloquio investigativo alla presenza dell’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e Pietro Grasso, qualcosa Spatuzza accennò velatamente in riferimento al Cavaliere e al suo braccio destro nonché cofondatore di Forza Italia. «Gli dissi “Fate attenzione a Milano 2”. Stavamo per salutarci e io mi sentivo di dire qualcosa anche se ancora non ero pentito». L’intenzione era quella di «dare in modo soft, come avevo fatto per il furto della 126 usata per la strage di via D’Amelio, un’indicazione», ha aggiunto. Nel corso del controesame, Spatuzza ricorda infatti di «un colloquio informativo del ’98 o del ’99» in cui «mise in guardia Vigna e Grasso, ma senza andare troppo a fondo, perché ancora non ero un collaboratore, che su via D’Amelio le cose non stavano proprio così come credevano i magistrati». «Dissi che forse quei ragazzi (Scarantino, Candura e Andriotta, ndr) avevano rubato una macchina, ma non era quella utilizzata per la strage. La macchina utilizzata per la strage era stata rubata da altri ragazzi. Non dissi però che ero stato io», afferma il collaboratore autoaccusandosi successivamente del furto della 126 utilizzata come autobomba nell’attentato al giudice Borsellino.
Il ritardo delle accuse di Spatuzza contro Berlusconi e Dell’Utri è stato contestato dai difensori di quest’ultimo, gli avvocati Pietro Federico e Giuseppe Di Peri: «Sono avvenute dopo il periodo dei sei mesi successivi alla decisione di collaborare, i 180 giorni previsti dalla legge», hanno affermato gli avvocati, scatenando un acceso dibattito con i pubblici ministeri Di Matteo e Del Bene circa l’utilizzabilità delle dichiarazioni del pentito in merito al dialogo avuto con Graviano al bar Doney.
Rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio (difesore degli ex ufficiali Mori e Subranni), Spatuzza ha chiarito a cosa alludeva Giuseppe Graviano con l’espressione “colpo di grazia”, sempre in riferimento all’attentato allo stadio Olimpico di Roma: «Vuol dire che la cosa è già morta, ma che dovevamo fare qualcosa per assicurarci che fosse definitivo. Significa che avevamo fatto tutto, ma che c’era qualcosa che dovevamo chiudere definitivamente. E per farlo, serviva la bomba all’Olimpico». A chi doveva essere dato questo colpo di grazia? Graviano non lo dice esplicitamente, ma per Spatuzza è ovvio che si tratti dello Stato, di quella classe politica che non aveva mantenuto le promesse fatte a Cosa nostra.
«Dopo il fallito attentato all’Olimpico finirono le stragi perché noi avevamo chiuso tutto». Stando alle parole di Spatuzza e di altri collaboratori di giustizia, infatti, Cosa nostra aveva trovato nuovi referenti politici, che rispondevano ai nomi di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. «Persone serie che avevano portato avanti la cosa, non come quei quattro crasti dei socialisti».