Rosy Bindi, Presidente della Commissione Antimafia, incontra la cittadinanza a San Giovanni Valdarno.
Organizzato da Libera l’incontro è stata un’occasione di riflessione sul fenomeno mafioso che resta il più pesante gravame per la crescita democratica, civile e umana della nostra società.
Il 30 giugno ha avuto luogo a San Giovanni Valdarno l’incontro con Rosy Bindi, Presidente della Commissione Antimafia, sul tema “Infiltrazioni mafiose, cosa accade in Toscana e nel Valdarno”, organizzato da Libera Toscana e dalla Conferenza dei Sindaci del Valdarno. Insieme alla Bindi hanno partecipato Andrea Bigalli, referente di Libera Toscana, il sindaco di San Giovanni Valdarno Maurizio Viligiardi, presidente della Conferenza dei Sindaci del Valdarno, il sindaco di Pergine Valdarno Simona Neri, responsabile di Anci Toscana per il contrasto alle ludopatie; ha moderato il dibattito Pierluigi Ermini, referente di Libera Coordinamento Valdarno.
Prima di riportare quanto è emerso nel corso dei vari interventi, ci preme circostanziare quale, a nostro parere, è il motivo della costante sottovalutazione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica, per l’opera di quanti la orientano , anche adesso, come è stato rilevato pure da alcuni dei partecipanti.
Nel maggio 2003 e poi nel 2004 le sentenze della Corte d’Appello di Palermo e della Cassazione penale, che non lo condannarono, riconobbero che fino alla primavera del 1980 Giulio Andreotti ebbe rapporti organici con l’organizzazione mafiosa siciliana. Se non si fossero fermati a quella data, avrebbero condannato e recluso come antistato un intero pezzo della storia dell’Italia repubblicana.
Andreotti era uno degli uomini, nelle istituzioni, più vicino alle gerarchie della Chiesa di allora ed era “un amico” degli americani; Michele Sindona, per il quale “il divino Giulio”, secondo la sentenza di primo grado, “adottò reiteratamente iniziative idonee” ad agevolarne la realizzazione degli interessi, fu banchiere della mafia e “banchiere di Dio” , mentre l’America era l’altro polo dei suoi affari. Venne assassinato in un carcere dello Stato col cianuro nel caffè, come fu per Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Giuliano che aveva appena dichiarato di voler fare rivelazioni che avrebbero fatto tremare l’Italia. A Portella delle Ginestre, in Sicilia, col fuoco contro i lavoratori che festeggiavano il primo maggio subito dopo la vittoria delle sinistre alle elezioni regionali, si avviò la rottura del patto antifascista che aveva prodotto la Costituzione e iniziarono i misteri d’Italia.
Il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione conferma gli ergastoli e le altre pesanti condanne per i membri della cupola mafiosa : per la prima volta viene riconosciuta in una sentenza definitiva l’esistenza dell’organizzazione denominata Cosa Nostra. E tuttavia il pool che ha permesso un simile successo dello Stato viene smantellato. Nel marzo 1992 l’uccisione di Salvo Lima è stata anche un messaggio per Andreotti, meditati pareri ritengono perché non più in grado di assicurare l’immunità. E’ in atto un cambio di potere. Nel maggio e nel luglio dello stesso anno in due spaventosi attentati che dimostrano la potenza della mafia Falcone, Borsellino e gli uomini delle rispettive scorte, quelli che si mettono di traverso, vengono assassinati. Nel maggio 2014 Marcello Dell’Utri è condannato in via definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa; Aurelio Galasso, procuratore della Cassazione, ha sostenuto che “per diciotto anni, dal 1974 al 1992, Marcello Dell’Utri è stato garante dell’accordo tra Cosa Nostra e Berlusconi” e ha aggiunto che il patto “è stato attuato volontariamente e consapevolmente”; è stato Dell’Utri a consigliare il proprietario Fininvest di mettersi in casa il mafioso Mangano come stalliere: secondo il parere di molti come garanzia di un patto economico politico, secondo il parere dell’entourage berlusconiano per tutelarsi dalle minacce della mafia. Le parole intercettate in carcere, di cui si ha notizia in questi giorni, e riferite ad un altro detenuto sul cavaliere di Arcore dal boss Giuseppe Graviano, condannato per le stragi del 1992-1993, fra le quali quella ai Georgofili di Firenze, se risultassero attendibili confermerebbero la partecipazione di Cosa Nostra, con le sue competenze specifiche, alla nascita di ciò che viene definita seconda Repubblica e del Ventennio, iniziato nel 1994 ma preparato urgentemente negli anni immediatamente precedenti, mentre Tangentopoli si sarebbe arenata. Berlusconi era anche iscritto nelle liste della P2 scoperte nel marzo 1981 in una fabbrica di proprietà di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Adesso Dell’Utri è uno degli indagati per la trattativa Stato mafia, che, secondo quello che emergerebbe dalle indagini, ci fu; pure se l’alto numero dei ricattabili e dei ricattati che conservano le proprie posizioni fa sì che la piena verità ne resti tuttora sepolta. Dell’Utri è pure indagato, insieme a Verdini e ad altri, per la P3.
E allora non possiamo che concordare con quanto detto, nell’incontro di cui riferiamo, da Andrea Bigalli: per debellare definitivamente la mafia occorrerebbe una rivoluzione morale, prima ancora che politica, che recuperasse i principi fondativi della nostra democrazia, l’umanesimo cristiano e il senso di giustizia di quanti allora edificarono i principi di un nuovo mettersi insieme. Ha detto Andrea Bigalli che occorre ridefinire l’ambito del bene comune.
La mafia invece garantisce un ordine diverso, un ordine certo distorto, ma che da risposte economiche e politiche ai bisogni dell’animale uomo. Giovanni Falcone affermò che la mafia era entrata in Borsa. La mafia si radica nel tessuto sociale, come camaleonte si trasforma a seconda delle realtà dove deve agire. Le mafie adesso capiscono che non serve più contattare il parlamentare di Roma, meglio avvicinare un sindaco, ma meglio ancora utilizzare il primo e prevaricante valore delle nostre società: la forza penetrante del denaro.
In Toscana però può parlarsi di infiltrazioni criminose non di radicamento, non ci sono clan autonomi rispetto alla famiglia d’origine che resta insediata nelle tradizionali regioni mafiose; le organizzazioni criminali fanno affari, perseguono interessi economici, riutilizzano i proventi illegali in attività emerse, possono inserirsi, come abbiamo visto per l’alta velocità, nelle grandi opere, soprattutto grazie al sistema dei subappalti. Non hanno interesse, come nelle zone di origine, a lasciar apparire anche in modo violento la loro forza; anzi in regioni come la Toscana preferiscono inabissarsi, non farsi notare troppo per evitare la nascita di anticorpi. Non così in altre regioni del nord, come la Lombardia, ormai rosa dal cancro, specie ‘ndranghetista, o la Liguria, il Piemonte, l’Emilia Romagna, dove sono minimi gli episodi di violenza manifesta, ma la loro presenza è ormai palese e accertata dalle indagini, fino allo scioglimento, qualche tempo fa inaudito in tali territori, di consigli comunali per mafia.
Ha detto la Bindi che ciò non deve indurre ad abbassare la guardia: tutt’altro. La mafia c’è, solamente è silenziosa, accorta. Soprattutto il territorio toscano è utilizzato per il riciclaggio del denaro sporco, ma anche, sottotraccia, per la formazione dei capitali illeciti. In Toscana, e il Valdarno è zona ben interessata dal fenomeno, la droga, cocaina maggiormente, ha consumi elevatissimi, viene usata in tutte le fasce sociali, dai disoccupati e dai professionisti, negli angoli bui e nei salotti eleganti; e sono in gran parte le mafie straniere, che qui sono insediate più visibilmente, a eseguire questo traffico, anche dal porto di Livorno transita una parte, benchè minore , di tale gigantesco flusso. Molta di questa enorme quantità di denaro resta qui e viene reinvestita, in parte direttamente dalle cosche straniere, in altra parte dalle mafie italiane, soprattutto camorra e ‘ndrangheta, abili a sfruttare gli accordi criminosi e a nascondersi alle spalle delle organizzazioni estere. La Toscana è terra che si presta a simile dinamismo economico: è una regione con un tessuto economico sociale importante; qui si investe, si consuma, si acquista, vi è una costa interessante, flussi turistici notevoli, bellezze paesaggistiche e artistiche tra le più rinomate al mondo. La grande quantità di denaro accaparrato e utilizzato fa del mafioso, nella società capitalistica, un interlocutore difficilmente ignorabile, e infatti la cosiddetta classe dirigente di un sistema in cui il denaro non ha odore non lo ignora; e direttori di banca, commercialisti, notai, avvocati, imprenditori chiudono occhi, orecchie e bocca davanti alla potenza dell’avere e alla sfacciataggine delle irregolarità.
La mafia si può battere. Il mafioso ha necessità di nascondersi dietro prestanome e se un istituto bancario o un professionista non lo scopre è spesso perché non vuole: sarebbe sufficiente l’etica professionale per fermare la corruzione mafiosa. E non c’è mafia senza rapporti con i poteri politici: occorrerebbe la volontà delle dirigenze partitiche di allontanarsi dai troppi personaggi scesi in campo nonostante la mancanza di ogni autorità morale, che come i mafiosi sono nemici della democrazia, del bene comune e del miglioramento della condizione umana.
Fulvio Turtulici (per la community Valdarno)