Presentato a Palermo il libro “La mafia non lascia tempo”
L’Istituto Gramsci, ai Cantieri Culturali alla Zisa, ha ospitato la presentazione del libro in cui l’ex braccio destro di Totò Riina, Gaspare Mutolo, racconta la sua vita alla scrittrice Anna Vinci
Gaspare Mutolo è stato per anni il braccio destro dei più potenti boss di Cosa nostra, come Totò Riina e Saro Riccobono. Divenuto in breve tempo il loro uomo di fiducia, che gestiva anche parte del narcotraffico internazionale, Mutolo entra ed esce dal carcere, si dà pure alla latitanza, fino a quando nel 1992 decide di iniziare a collaborare con la giustizia, affidando le proprie rivelazioni prima al giudice Giovanni Falcone e poi a Paolo Borsellino, fortemente contrastato all’interno della Procura di Palermo, a cominciare dal procuratore capo Pietro Giammanco. La sua storia intrisa di dolore – vissuto e inflitto –, dall’ “educazione” criminale fino alla rinascita di uomo a servizio dello Stato, è narrata nel libro “La mafia non lascia tempo” (ed. Rizzoli, 2013) di Anna Vinci, presentato nei giorni scorsi presso l’Istituto Gramsci di Palermo. «La penna meravigliosa di Anna Vinci – ha detto Giorgio Bongiovanni, fondatore e direttore di Antimafia Duemila – ha saputo esprimere le esperienze di vita di un collaboratore di giustizia, raccontandone tutti i drammi. È importante conoscere la sua storia personale, perché è uno di quei personaggi che ha visto lo Stato trattare con la mafia e ha accusato uomini delle Istituzioni, poi condannati in via definitiva, come il dottor Contrada».
«Mi dissocio formalmente dall’organizzazione Cosa nostra, alla quale io sono appartenuto, facendo parte della famiglia di Partanna-Mondello, famiglia che aveva come capomandamento Saro Riccobono». Era il 26 giugno 1992 quando Gaspare Mutolo pronunciava queste parole dinanzi al giudice Pier Luigi Vigna e alla dottoressa Silvia Della Monica, chiudendo così un lungo capitolo della sua vita, quello in cui riveste il ruolo di uno dei più spietati soldati della mafia siciliana, per aprirne uno nuovo, quello di collaboratore di giustizia. Mutolo è l’ultimo pentito interrogato da Paolo Borsellino nei giorni che hanno preceduto la sua morte e soprattutto è il primo a fare i nomi di figure istituzionali, come l’allora numero 3 del Sisde Bruno Contrada, che avevano stretto rapporti con Cosa nostra. Oggi vive sotto protezione, lontano dalla Sicilia, e ha trovato una sorta di rinascita anche attraverso la pittura, in cui è evidente il travaglio vissuto in questi anni, l’evoluzione interiore di chi aveva dedicato la propria vita alla mafia e ha cambiato radicalmente visione delle cose schierandosi fortunatamente dall’altra parte. Quella della verità e della giustizia. Ma Mutolo è anche il testimone oculare di un fatto gravissimo e per il quale è stato chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo: è il 1° luglio 1992, quando nel bel mezzo dell’interrogatorio, in un ufficio della Dia in via Carlo Fea a Roma, Borsellino viene chiamato dal Ministero dell’Interno e lascia Mutolo dicendogli che doveva allontanarsi per incontrare l’allora ministro Nicola Mancino. Passano circa due ore, quando il dottor Borsellino torna per proseguire l’interrogatorio e il pentito nota subito che il giudice è talmente sconvolto da non essersi accorto di stare fumando contemporaneamente due sigarette. L’aneddoto è descritto nel libro e, secondo l’accusa al processo sulla trattativa, è in quell’occasione che l’ex ministro Mancino avrebbe parlato della trattativa proprio a Borsellino. Ed è sempre durante quell’incontro che il giudice ha incontrato Vincenzo Parisi (all’epoca capo della Polizia) e Bruno Contrada, che gli avevano detto di sapere dell’interrogatorio, nonostante questo sarebbe dovuto essere segretissimo. Per anni Mancino ha detto di non ricordare di aver avuto un incontro con Borsellino il giorno del suo insediamento, salvo poi ammettere di non poterlo escludere a priori. Di quell’appuntamento ne rimane comunque una traccia anche nell’agenda grigia del magistrato ucciso in via D’Amelio, una delle tante utilizzate in quel periodo e l’unica rimasta in possesso dei familiari dopo la strage avvenuta due settimane dopo. «Mutolo, quindi, diventa non solo un pentito di mafia che fa arrestare i killer di Cosa nostra – prosegue Bongiovanni – ma anche un collaboratore di giustizia che parla dei legami tra mafia e politica, tra mafia e magistratura, come il caso del giudice Signorino che si suicida mentre Mutolo rende le sue dichiarazioni e svela che questi era purtroppo al soldo di Cosa nostra. E l’anno scorso, per la prima volta, fa il nome anche del giudice Ajala, amico personale di Falcone, pure lui coinvolto in Cosa nostra, stando sempre a quanto dice Mutolo e confermato anche da Giovanni Brusca davanti alla Procura di Caltanissetta. Brusca, infatti, racconta che Cosa nostra aveva dato ad Ajala una valigetta con 500 milioni di lire. Quindi il Mutolo non si sta inventando niente».
«Dobbiamo inchinarci tutti di fronte all’amore che Falcone e Borsellino avevano per la loro terra – ha detto Gaspare Mutolo, in collegamento telefonico –. Fino all’ultimo sono stati traditi dai loro stessi amici, per la visione che avevano della lotta alla mafia, organizzazione in qualche modo oggi smantellata, al contrario della P2, P3, P4 e di tutte le fondazioni politico-mafiose. Ma il rapporto tra lo Stato e la mafia è sempre esistito ed è presente ovunque, cambia semplicemente il volto. La mafia, per tenersi forte, deve avere i suoi personaggi nello Stato, è un fattore economico, che in Sicilia si chiama mafia, a Milano e a Roma si chiama P2, si chiama corruzione, evasione fiscale, sempre di questo stiamo parlando».
Mutolo rivolge poi un ringraziamento a Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, anche lui presente all’evento. «Se non ci fosse stato lui, nessuno avrebbe più parlato di Falcone e Borsellino. Ci sarebbero state solo corone di fiori, come quelle portate dal presidente della Repubblica al milite ignoto. E questo in tanti lo vogliono negare». Allo stesso tempo, il fondatore del movimento delle Agende Rosse ha sottolineato l’importanza della collaborazione di Mutolo, pur naturalmente nei suoi limiti, poiché spiegherebbe le ragioni della strage di via D’Amelio. «Quando si parla di Mutolo, bisogna parlare anche del suo lato umano. Io sento con lui un particolare rapporto».
«Paolo è stato ucciso anche per quell’agenda rossa. Ucciderlo senza sottrarre quella agenda, non sarebbe servito a niente. Però abbiamo una piccola agenda grigia, sulla quale mio fratello ha annotato l’appuntamento del 1° luglio, dove ha scritto: ore 19.30 Mancino. Perché mai avrebbe dovuto scrivere di un incontro se questo non fosse mai avvenuto? E perché, soprattutto, Mancino nega così ostinatamente di aver incontrato Paolo, tanto da affermare addirittura, in un primo momento, di non conoscerlo fisicamente? È impossibile che in Italia, nel ’92, ci fosse una sola persona che non conoscesse Paolo Borsellino. Dietro quel rifiuto, quindi, di voler ammettere quell’incontro, deve esserci qualcosa di fondamentale. C’è la possibilità – ribadisce da anni Salvatore – che Mancino abbia parlato in quell’occasione della trattativa e che gli abbia detto che doveva fermare le sue indagini, quelle che stava conducendo disperatamente per trovare gli assassini di suo fratello Giovanni Falcone, tanto da ripetere ossessivamente “Devo fare in tempo. Devo fare in tempo”. Inoltre, quando Paolo arriva al Viminale, incontra Contrada che gli fa capire di sapere di Mutolo. Anche qua dietro c’è qualcosa di terribile. Io ritengo che ci siano due cause concomitanti nell’assassinio di Paolo: una è che Paolo si è opposto alla trattativa in maniera netta e precisa, e l’altra è che l’accelerazione del suo assassinio sta nel fatto che Gaspare Mutolo abbia deciso di collaborare con la giustizia e di farlo parlando prima con Falcone e poi con Borsellino. E subito dopo che l’ex boss inizia a fare i nomi dei politici infiltrati in Cosa nostra, come mai nessuno prima di allora aveva fatto, entrambi vengono uccisi. Uccisi dalla mafia e da pezzi di quello Stato che loro avevano giurato di servire». Ecco la particolarità della collaborazione di Gaspare Mutolo: dalle sue rivelazioni sono emersi i legami più perversi tra lo Stato, la politica e la mafia, ma soprattutto è venuta fuori una delle componenti dell’uccisione di Paolo Borsellino.