Parla il pentito Brusca: «Strage di Capaci per influire su elezione al Quirinale»
L’uomo che ha premuto il telecomando dell’attentato a Falcone, spiega il suo ruolo all’interno di Cosa Nostra in occasione della deposizione a Milano nell’ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia
Si è riaperto oggi a Milano il processo per la trattativa Stato-mafia, di competenza della Procura di Palermo, con l’esame del collaboratore di giustizia – nonché imputato – Giovanni Brusca, che si protrarrà anche nei giorni 12 e 13 dicembre. I pubblici ministeri dovranno accertare le responsabilità di chi è accusato di aver aperto un dialogo con Cosa nostra, al fine di far cessare la strategia stragista messa in atto nei primi anni ’90. Giovanni Brusca, ex boss di San Giuseppe Jato, è stato il mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Responsabile di oltre un centinaio di omicidi, fu mandante anche della strage di Capaci, oltre che il suo esecutore materiale: appostato nei pressi dell’autostrada, azionò la bomba che uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Il primo a porre le domande al pentito, accompagnato in aula dalle guardie giudiziarie, è stato il pm Teresi. Il procuratore aggiunto rappresenta l’accusa, insieme al procuratore di Palermo Francesco Messineo, e ai sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Assente Nino Di Matteo: dopo l’ultimo allarme in seguito alle ennesime minacce lanciate da Totò Riina dal carcere di Opera, si è ritenuto che i rischi fossero troppo alti e così il magistrato è rimasto a Palermo. Davanti all’aula bunker di Milano, un gruppo di cittadini ha organizzato un sit-in di solidarietà per il pm. I manifestanti hanno esibito un enorme striscione con scritto “Milano sta con Di Matteo”. C’è anche Salvatore Borsellino e alcuni rappresentanti delle Agende Rosse, che hanno indetto il presidio davanti al bunker di via Ucelli Di Nemi. Quello della società civile è l’unico sostegno al pm, al quale lo Stato ha impedito di andare al processo con la dovuta sicurezza, pur avendone certamente i mezzi.
L’esame dell’ex braccio destro di Riina inizia con i ricordi di come è iniziata la sua carriera criminale, a partire dal rito di affiliazione, una sorta di “patto di sangue” a cui ogni mafioso deve sottoporsi a giuramento. «Sono stato affiliato formalmente nel ’75, prima dell’omicidio del colonnello Russo al quale ho partecipato. Mi hanno insegnato che prima veniva Cosa nostra, poi tutto il resto. Io questa regola l’ho seguita», racconta Brusca, che ricorda anche di quando, da adolescente, portava i viveri al latitante Leoluca Bagarella.
Il procuratore aggiunto di Palermo Teresi introduce la questione degli omicidi eccellenti e Brusca dichiara: «Nel corso di una riunione, nel ‘91, Totò Riina disse che dovevano morire tutti, che si voleva vendicare, che i politicanti lo stavano tradendo. Riina fece i nomi di Falcone, che era un suo chiodo fisso, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli e di Purpura. Disse: “Gli dobbiamo rompere le corna”. Tutti ascoltavano in silenzio. Per amore o per timore». Mentre Falcone e Borsellino andavano eliminati in quanto nemici dei clan, secondo il pentito i politici come l’eurodeputato Salvo Lima e l’ex ministro Calogero Mannino, dovevano pagare il non avere fatto gli interessi di Cosa nostra. «Mannino, ad esempio – ha detto – doveva morire perché non aveva aggiustato, tramite il notaio Ferraro, il processo per l’omicidio del capitano Basile. Riina mi diede l’ordine di ucciderlo e io chiesi tempo per studiarne le abitudini».
Nella nota lista di politici da eliminare, Brusca ricorda come si parlò anche di Andreotti, ma nel suo caso il «romperci le corna» proferito da Riina era sinonimo di «ucciderlo politicamente» e, più specificamente, di «non farlo diventare presidente della Repubblica». «C’era tutta la volontà di metterlo in difficoltà». «Per l’eliminazione di Martelli, invece, il discorso era più concreto – sottolinea – c’era un vero e proprio piano operativo. Mandai degli uomini a studiarne le mosse». La priorità degli omicidi, comunque, la decideva Riina. «Ad esempio si cominciò con Lima perché si vociferava delle aspirazioni di Andreotti alla presidenza della Repubblica e noi sapevamo che con quel delitto avremmo condizionato quella vicenda. Per questo si decise di ammazzarlo allora: in realtà nella lista di Cosa nostra Falcone e Borsellino venivano prima». Brusca ha raccontato pure del progetto di attentato nei confronti di Piero Grasso, successivamente archiviato per un «problema tecnico».
E proprio in merito alla strage di Capaci, l’uomo che premette il pulsante del telecomando che fece saltare in aria il giudice insieme ai suoi agenti di scorta, rivela come in realtà il suo ruolo non fosse stato pianificato a priori. «Io nell’attentato di Giovanni Falcone, nel suo piano esecutivo, ci sono entrato per sbaglio». Intorno all’attentato del 23 maggio del 1992, ruotano ancora diverse ipotesi investigative. Rimane soprattutto da chiarire la posizione di Pietro Rampulla, detto “l’artificiere”. Ex ordinovista originario di Mistretta, Rampulla era legato alla destra eversiva, vicino alle cosche di Nitto Santapaola, nonché legato da un’antica amicizia a Rosario Cattafi, l’avvocato-pregiudicato di Barcellona Pozzo di Gotto, anche lui con un passato tra gli ordinovisti. Rampulla era l’uomo che quel giorno avrebbe dovuto premere il telecomando (che lui stesso aveva procurato) e che invece all’ultimo momento aveva rinunciato per sopraggiunti impegni non ben identificati, lasciando così il compito allo stesso Brusca. «La strage di Capaci – rivela quest’ultimo – fu accelerata per influire sulla nomina del presidente della Repubblica» e il commando inizialmente investito dell’incarico di uccidere Falcone avrebbe dovuto agire quando il giudice era a Roma, «poi, vedendo che perdevano tempo si rivolse a me e diede a me il compito».
«Riina e Provenzano avevano divergenze di vedute non sull’uccidere Falcone, ma sulle modalità. Provenzano mostrò la volontà di ammazzarlo fuori dalla Sicilia e Riina lo trattò a pesci in faccia e gli disse: “Io lo devo uccidere qua”». “Riina voleva essere sicuro di riuscire nell’attentato – spiega – infatti mi disse di impiegare 1000 chili di esplosivo». Venti giorni dopo la strage di Capaci, Brusca racconta di aver incontrato Riina a casa di Girolamo Guddo. «Mi disse che aveva fatto un papello di richieste, per fare finire le stragi». Qualche giorno dopo, Riina, contentissimo, mi informò che era arrivata una indicazione: «Mi spiegò che avevano risposto, fecero sapere che le richieste erano assai. Ma non c’era una chiusura. “Si sono fatti sotto”, mi disse, “mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello così”. E a questo punto Riina mi fece il nome di Mancino, la richiesta era finita a lui, così mi fu spiegato». Su domanda del pm Roberto Tartaglia, Brusca ha precisato che «da lì a poco Mancino diventò ministro».
Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno,è attualmente sotto processo (in questo stesso procedimento) per falsa testimonianza. Per il collaboratore di giustizia è lui «il terminale» di quell’elenco di richieste fatte da Cosa Nostra per far cessare le stragi. Durante l’interrogatorio, il pm Tartaglia affronta la questione delle stragi nel “Continente”. In merito alle bombe del ’93 Brusca afferma: «Tutto questo era finalizzato per farli tornare a trattare, per costringerli a riaprire questo dialogo». Il riferimento è a quella sorta di pausa di riflessione da parte di chi trattava con Cosa Nostra di fronte alle richieste di Riina (prima fra tutte, l’abolizione del 41bis) che evidentemente intendeva invece proseguire con la strategia stragista per destabilizzare il Paese.