I beduini del Negev
Un popolo a cui Israele nega qualsiasi diritto
Non si parla spesso del popolo dei beduini del Negev, gli articoli sui presunti attentati terroristici e sui razzi qassam sono giornalisticamente più appetibili e così la storia di queste famiglie che lottano quotidianamente contro l’occupazione israeliana resta nell’ombra.
Il deserto del Negev ha una superficie di circa 13.000 km² e rappresenta circa il 60% delle terre israeliane. In concomitanza con la sua nascita, Israele espulse in maniera illegale le popolazioni palestinesi che abitavano lì prima del 15 maggio 1948, ma alcune tribù riuscirono a restare divenendo automaticamente parte dello Stato di Israele e, con gli anni, coloro che hanno deciso di rinunciare alla vita beduina si sono visti riconoscere alcuni diritti pur rimanendo cittadini di serie “B”. Erano circa 12.000 e per loro era rimasto disponibile solo il nord-est della regione, la zona più arida, chiamata siyag (recinto). Fino al 1966 la zona del siyag fu sottoposta ad una rigida amministrazione militare che limitò i diritti fondamentali dei beduini, poi il governo israeliano decise di concentrare la popolazione beduina in sette nuovi insediamenti semi-urbani sempre nel deserto dove, per molti anni, le nuove municipalità furono governate da funzionari del ministero dell’interno israeliano. Attualmente questi insediamenti semiurbani ospitano circa 135 mila persone, i tassi di disoccupazione e natalità sono elevatissimi, le infrastrutture quasi inesistenti e le scuole di pessima qualità.
Nel 1965, la Legge Nazionale Israeliana di Pianificazione e Costruzione destinò le proprietà beduine presenti nel Negev e che non facevano parte delle nuove municipalità, a terreno agricolo, industriale o militare, impedendo così la costruzione di qualunque edificio e rendendo illegali gli insediamenti beduini esistenti.
I villaggi beduini diventarono villaggi non riconosciuti dallo Stato di Israele in cui non era e non è possibile ottenere licenze edilizie e non si possono avere strade di accesso né allacciamento all’acqua corrente, all’elettricità, o al sistema fognario; i loro abitanti sono però, a tutti gli effetti, cittadini israeliani.
Nel 2007 il governo israeliano istituì la commissione Goldberg per risolvere la “questione” di questi villaggi “illegali” e, dal risultato del suo lavoro, è nata la prima bozza del piano Prawer (da Ehud Prawer, ex vicedirettore del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano) che ha avuto il primo via libera dell’esecutivo nel 2011 ed è stato approvato dal parlamento israeliano il 24 giugno del 2013.
Il progetto, che ha un costo previsto di 5,6 miliardi di dollari, prevede la confisca di 80mila ettari di terra e il trasferimento forzato di circa 80mila beduini nelle sette municipalità costruite dal governo, dove si registrano i tassi di criminalità più alti del paese e la mortalità infantile è quattro volte superiore rispetto agli insediamenti ebraici come evidenziato anche da un rapporto pubblicato a maggio 2013 dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Profughi Palestinesi (Unrwa), in collaborazione con l’ong israeliana Bimkom, che ha denunciato la situazione dei profughi beduini che vivono nel villaggio di Al Jabal. Lo studio evidenzia come l’urbanizzazione forzata ha distrutto il loro stile di vita basato sulla pastorizia, il tessuto sociale e la base economica e commerciale.
Nei giorni scorsi diversi bulldozer israeliani sono arrivati nella zona, scortati dall’esercito, per una nuova ondata di demolizioni e hanno distrutto le case di varie famiglie, obbligandole ad andare a vivere nelle tende.
I beduini del Negev hanno fatto appello alle organizzazioni internazionali umanitarie e per i diritti umani perché vadano nella zona per vedere e raccontare al mondo i crimini compiuti quotidianamente contro i suoi abitanti dal governo israeliano e, nel frattempo, ricostruiscono le case e le stalle e resistono.
Barbara G., Associazione di Amicizia Italo-Palestinese onlus