Pubblicato: Mer, 17 Dic , 2025

Giornata contro la violenza sui sex workers/ Covre, ”Il lavoro sessuale va depenalizzato”

La fondatrice del Comitato per i diritti delle prostitute: ”Non è prostituzione, va cambiato il linguaggio e trattato esclusivamente sotto il profilo giuslavoristico”

Sexo, dignidad y muerte. Era il 2004 quando Sandra Cabrera, lavoratrice sessuale argentina, venne ritrovata morta, con un colpo di pistola alla nuca, a un isolato di distanza dalla fermata in cui lavorava, nella città di Rosario. Sandra Cabrera venne assassinata dalla polizia: aveva avuto il coraggio di denunciare le violenze sistematiche che lavoratrici e lavoratori del sesso subivano ripetutamente dagli agenti, coinvolti in affari di corruzione, criminalità, sfruttamento. Parlare di lavoro sessuale (sex work) è ancora difficile, per uno stigma sociale che trascina con sé la criminalizzazione di un mestiere che, invece, ha tutta la dignità di esistere e resistere. Il sex work riconosce l’autodeterminazione di professionistə che mettono a disposizione i loro corpi non perché vittime di tratta, ma in quanto soggetti (politici) consapevoli. Il 17 dicembre è la Giornata Mondiale contro la violenza su lavoratori/lavoratrici del sesso: una violenza che inizia con la mancanza di tutele statali e procede silenziosa con forme di sfruttamento, censura morale, controllo punitivo, oscuramento sociale, discriminazione. Tra approccio abolizionista e proibizionista, in cui ci si muove oggi, Maria Pia Covre, fondatrice nel 1982 insieme a Carla Corso del Comitato per i diritti civili delle prostitute (CDCP Aps) propone una terza via: la depenalizzazione. Sindacalizzare il marciapiede è possibile, l’abbiamo intervistata.

Come nasce l’idea di fondare la prima associazione per il riconoscimento dei diritti civili e sociali di sex workers?

Tutto è iniziato da una protesta contro atti di violenza che noi lavoratə subivamo da alcuni militari della base Usa di Pordenone. A ciò si aggiunsero le retate repressive e discriminatorie delle forze dell’ordine che applicavano la legge anti terrorismo (legge Cossiga). C’erano problemi di grande vulnerabilità per alcune fasce sociali, e noi chiedemmo tutele e garanzie, denunciando pubblicamente le violenze per strada. Poi, chiamammo ad esprimersi i Parlamentari dell’arco costituzionale del 1983. Le nostre richieste erano chiare: una revisione della Legge Merlin finalizzata alla decriminalizzazione, in particolare del reato di favoreggiamento, e alla libertà di praticare la professione senza i rischi di essere espostə a violenze arbitrarie.

Da allora cos’è che continua a non funzionare?

Partirei, tra i molti nodi, da quello fiscale: inizialmente non eravamo tenute a pagare le tasse (la stessa legge Merlin afferma che lo Stato non può trarre profitto dal nostro lavoro). Poi però la pubblica opinione alzò la voce chiedendo che anche noi pagassimo le tasse: sono iniziate così le indagini sui nostri conti correnti e sugli acquisti. Quest’anno hanno creato un nuovo codice ATECO che ci rende “libere professioniste” ma che – paradossalmente – impone limiti contraddittori: possiamo lavorare in strada, online e indoor, ma continuano a perseguirci con retate attraverso fogli di via e daspo. Ulteriore problema: non possiamo praticare in casa perché chiunque lavori con noi o ci affitti la struttura può essere denunciato per favoreggiamento. Non ci è possibile usufruire di hotel; e per quanto riguarda la professione online, i tentativi di oscuramento dei siti sono dietro l’angolo. Neppure annunci pubblicitari online ci è possibile caricare perché diventano strumenti usati dalla polizia per intercettare noi o i clienti, col rischio di vedere compromessa la privacy. Chi ha stilato la lista del codice ATECO non ha evidentemente considerato il fatto che il nostro lavoro sia ancora collocato all’interno del Codice Penale. Ecco lo stallo giuridico: possiamo esercitare come professionistə, ma allo stesso tempo veniamo trattatə come criminali. In questo clima ricattatorio è evidente come spesso non sia possibile denunciare le violenze e gli abusi senza paura di subìre ricatti e persecuzioni, di perdere il lavoro.

L’assenza di una regolamentazione giusta del lavoro sessuale ostacola i diritti più indispensabili, come quello di usufruire di ferie, malattia, pensionamento …

Esattamente. E la questione si complica se la donna lavoratrice sessuale è anche madre: il rischio che arrivino assistenti sociali, o che i figli vengano additati e discriminati per la professione del genitore è alto. Risulta chiaro che in qualsiasi circostanza si scelga di praticare il mestiere, essenziali devono restare le nostre tutele lavorative: diritto al welfare, accesso libero a servizi sociali e sanitari, maternità, pensionamento, invalidità.

Qual è, secondo lei, la differenza sociologica tra i concetti di “prostituta”, “donna prostituita” e “sex worker”?

Partiamo da una premessa: contesto l’uso della parola “prostituzione”. Qui parliamo di “lavoro sessuale”. “Prostituta” e “donna prostituita” sono di uso corrente tra le abolizioniste e le proibizioniste: non riconoscono il nostro lavoro né vogliono sentire parlare. Se scegliamo di parlare di “prostituzione” lo possiamo fare da un punto di vista meramente storico-antropologico – con la specifica che ne esistono di tanti tipi (non necessariamente fisico-sessuale). Se invece ci riferiamo ad un tipo di lavoro che necessita di sindacato, tutele, garanzie, allora è corretto usare i termini “lavoro sessuale”.

Il tema della “prostituzione – sex work” resta uno dei punti caldi della discussione teorico-accademica, perché c’è un continuo oscillare tra gli estremi di “violenza nel lavoro sessuale” e “lavoro sessuale come violenza”… 

Non dobbiamo confondere il lavoro sessuale con la tratta di esseri umani. Né dobbiamo mescolare l’autodeterminazione di lavoratori sessuali coi casi (numerosi proprio per l’assenza di politiche di protezione adeguate) di soggetti trafficati. Il sex work di persone adulte e autonome può essere una scelta consapevole anche in condizioni di precarietà e vulnerabilità. Ci sono uomini, donne, trans che, messi ai margini, non hanno altra risorsa che il loro corpo: cosa c’è di sbagliato se lo mettono coscientemente al servizio di relazioni sessuali anziché in fabbrica o in agricoltura? La questione piuttosto è un’altra: abbattiamo la povertà. Vogliamo mettere in discussione il lavoro delle persone più povere?

A proposito del “consenso” nel rapporto sessuale, dove inizia e dove finisce il consenso nel lavoro di sex workers? 

Il consenso è un contratto che si fa con l’utente per un servizio. Nel contratto dev’essere ben chiaro cosa metto a disposizione dell’utente che paga. Se durante la prestazione del servizio si verificano cose che non piacciono né a me né a lui, ciascuno dei due può recedere. È, in definitiva, una questione di accordo. Ecco perché, in assenza di tutele, è molto più difficile e rischioso gestire un cliente che vuole spingersi oltre, mettendo la/il lavoratore in condizione di vulnerabilità. Esistono Paesi in Ue dove, vicino al letto, ci sono campanelli d’allarme… Il contratto è il nostro consenso, oltre quel limite non si può andare.

Nel sistema italiano, in sostanza, vi sentite abbandonate in balia degli eventi?

Si, esatto: dobbiamo essere brave, essere psicologhe, capire al volo come gestire la situazione e “scaricare” il cliente senza farlo alterare. Questa non è sicurezza. Se vogliamo agire da una posizione di forza dobbiamo avere una condizione ottimale e legittima di lavoro. Il problema in un certo senso è all’antitesi: non servono ulteriori misure atte a colpire i criminali. Il nostro Codice Penale è già ricco in tal senso: abbiamo leggi contro la schiavitù (2003) e contro la tratta (1998, Protocollo di Palermo), ad esempio. È il sex work a dover essere, viceversa, depenalizzato e collocato sotto un profilo giuslavorista del Codice Civile.

Perché non esistono banche dati che riportano in modo accurato l’andamento della violenza commessa specificamente contro sex workers (omicidi, stupri, aggressioni)?

A volte le sex workers sono incluse tra i femminicidi, altre volte tra i casi di omicidi non di genere. Manca chiarezza e i dati sono raccolti male. Noi del Comitato per anni abbiamo redatto liste di nomi e dati, ma sono numeri rarefatti, poco documentati, a meno che i casi non “scuotano” l’opinione pubblica facendo scalpore. Inoltre, i pochi dati raccolti fanno riferimento soprattutto a casi di violenza denunciati, esattamente come avviene per gli episodi di violenza domestica. Poi, ci sono enti che non si parlano tra loro e dunque è inevitabile la parzialità.

Quest’anno è uscito il libro della sex worker e sindacalista Georgina Orellano, Puta feminista. Historias de una trabajadoras sexual (2025). In che modo l’autrice politicizza il sex work e lo sindacalizza?

La sua è una lettura giuslavorista del lavoro sessuale e chiarisce le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici del campo. È il manuale di una donna che difende il suo lavoro e i diritti ad esso associati. Il messaggio è chiaro: serve dialogo tra sex worker e gli altri settori statali, affinché i primi siano riconosciuti in quanto soggetti di diritto capaci di decidere sui loro corpi.

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