Così cambiava un partito
Le ultime primarie e il Partito Democratico visti con gli occhi di un giovane segretario
Così, alla fine, la presunta scossa è arrivata, il Partito Democratico si lascia alle spalle dodici mesi di indescrivibile follia, di imperdonabili errori, di presunte scelte di (ir)responsabilità. E lo fa nel modo migliore e, almeno nelle previsioni della vigilia, imprevisto nella sua portata numerica: con la partecipazione di massa.
Allora, pur con tutti i suoi limiti e le sue nefandezze, domenica 8 dicembre il Partito Democratico, grazie al lavoro di decine di migliaia di militanti su tutto il territorio nazionale, ha offerto a ogni singolo cittadino la possibilità di scegliere.
L’anno che ci lasciamo alle spalle è stato lo sfondo temporale del declino definitivo di una classe dirigente e anche di un modo di intendere la politica. Poco più di un anno fa milioni di elettori scelsero Pier Luigi Bersani come candidato premier. All’epoca Matteo Renzi era percepito, dai più, come una sorta di zanzara maledetta che infastidisce non poco un momento di relax estivo in cui tutto va come deve andare. Anche se, obiettivamente, ci si era anche messo d’impegno. La visita a Berlusconi, l’occhietto strizzato a Marchionne, la presenza al family day eccetera eccetera.
Detto ciò, in un anno in molti hanno cambiato idea. Forse perché niente è andato come doveva andare, forse perché Renzi ha lavorato un po’ per rendersi amabile pure dai duri e puri, forse perché il cambio generazionale prima o poi si fa anche per inerzia, Matteo Renzi in un anno passa dall’essere il grande sconfitto all’essere l’unico vero vincitore. Perché, in fondo, di questo si è trattato. Della pura e semplice incoronazione di un leader. Con tutti i suoi limiti e tutti i suoi difetti che permangono immutati soprattutto agli occhi di certi militanti con una certa storia, Matteo Renzi è uno che ha vinto in tutte le province italiane (con l’esclusione di Enna, per sua fortuna) e ha superato l’80 % non solo nella sua Toscana, ma anche nell’Emilia rossa. Zone dove “il Partito Comunista prendeva i 74% e la Democrazia Cristiana il 6%”. Avrà molti nodi da sciogliere, senza dubbio. A uno che ti promette la luna gli chiedi quantomeno che ti costruisca lo shuttle per raggiungerla. Se alla fine si presenta con un triciclo ci rimani male.
Ma nella vittoria di Renzi c’è, innanzitutto, un messaggio di speranza. Il popolo del PD, semplicemente, si è stufato di perdere e di essere subalterno. Subalterno a una stramaledetta idea di responsabilità che è più veterocomunista di Via delle Botteghe Oscure, a quella vecchia onta della necessità della legittimazione che, agli occhi di qualche ex leader, si poteva conquistare solo chinando il capo di fronte alle richieste del Berlusconi o del Gianni Letta di turno e non offrendo agli elettori una valida alternativa nella visione e nel sentimento. Ebbene il messaggio è stato semplice. Quella stagione è chiusa e non vogliamo sentirne più parlare. Non si tratta solamente della bocciatura di Bersani o di D’Alema. Si tratta dell’archiviazione definitiva di un modo di intendere la politica. Nessuno sa dire, ora, se quello di Renzi sarà migliore. Io mi auguro dal più profondo del cuore di sì, per il bene del Partito e del Paese. Certo, effettivamente, con quei tre volti finalmente nuovi e questo modo di fare si può dire che l’otto dicembre sia nato effettivamente il PD. Ora non possiamo più permetterci di navigare a mezz’aria, chiusi una navicella spaziale lontana tanto dalla terra e dai dolori che la abitano quanto dal cielo dei sogni e delle passioni, mai necessari come oggi.
In un momento delicato come questo, dove tutto sembra una polveriera pronta ad esplodere, c’è una assoluta urgenza di decisionismo. La storia ci insegna che l’incapacità di prendere decisioni, e quindi il sonno della ragione genera mostri. Se Letta 2014 non vuole passare alla storia come una riedizione 2.0 di Facta 1922 le decisioni vanno prese, e nel più breve tempo possibile. È l’unica, vera responsabilità. Qui c’è la sfida vera di Matteo Renzi, ma anche di Gianni Cuperlo e di Pippo Civati e di tutti noi. Se non si ripeteranno gli errori di ieri forse può aspettarci un domani più roseo.
Aneddoto da seggio. Arriva l’ultimo elettore quando avevamo già chiuso. Ci dice di aver fatto una corsa per arrivare e lo facciamo votare anche se erano le otto e venti. Ci chiede com’è andata, gli diciamo benissimo. Lui ride, se ne compiace e dice che ne era sicuro. Beato te, penso io. Eppure lui dà la più ovvia e banale ed intelligente delle spiegazioni, «Partecipare oggi voleva dire contribuire a cambiare il futuro. Essere di sinistra vuol dire avere lo sguardo rivolto in avanti», saluta e se ne va. Questo signore, in poche battute, ha riassunto buona parte della letteratura di riferimento della sinistra da oltre un secolo. La Storia Siamo Noi.
Francesco Magni