Condanna in Cassazione per concorso esterno in associazione mafiosa all’ex senatore D’Alì (Forza Italia)
“il politico a disposizione dei Messina Denaro, ha contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, mettendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche e il proprio ruolo istituzionale”.
Ha calcato le scene più importanti della politica italiana per oltre 24 anni continuati. È stato Senatore della Repubblica Italiana ininterrottamente dal 1994 al 2018, nonché sottosegretario di Stato al Ministero dell’interno e presidente della provincia di Trapani. Antonio D’Alì, laureato in giurisprudenza da famiglia di ricchi imprenditori, proprietaria di saline, navi commerciali, ampi latifondi e della Banca Sicula di Trapani, primo istituto privato bancario della Sicilia, che ha amministrato lui stesso. E’ entrato in politica nel 1993, è stato uno dei soci fondatori di Forza Italia. Tra le altre cose, è stato vicepresidente della commissione Finanze, responsabile economico di Forza Italia, Presidente della Commissione Ambiente del Senato e coordinatore provinciale del Popolo della Libertà.
Nell’ottobre 2011 la procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio, e nel maggio 2012 viene deciso il processo con rito abbreviato davanti al tribunale di Palermo. A giugno 2013 i Pm chiedono la condanna di D’Alì a 7 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa; il Gup di Palermo però lo assolve per i fatti successivi al 1994 e dichiara prescritti quelli precedenti. La corte di appello conferma la sentenza di primo grado.
Nel 2017 la DDA di Palermo richiede al tribunale per il politico siciliano, candidato sindaco nella sua città natale, la misura del soggiorno obbligato a Trapani, in quanto “socialmente pericoloso”. Nel 2018 venne annullata l’assoluzione dalla Cassazione, ordinando un nuovo processo d’appello. Anche nell’Appello-bis il pg scrive che i rapporti tra il politico e Cosa nostra “sono ancora attuali”. Chiede l’acquisizione dell’informativa su un incontro con Girolamo Scandariato (accusato di mafia e figlio del boss di Calatafimi) arrestato nell’operazione dei carabinieri “Pionica”. L’episodio risale al 2014 e D’Alì stava incontrando Scandariato e altre persone per affittare un suo terreno di 22 ettari. Per la procura generale è chiaro il riferimento a uno dei pochi elementi su cui concordano tutti i gradi di giudizio sinora espressi: la compravendita del terreno di contrada Zangara tra D’Alì e Francesco Geraci, compare di Messina Denaro. Nel 2019 il Tribunale Misure di Prevenzione di Trapani gli impone l’obbligo di dimora a Trapani, revocato nel 2021 dalla corte d’appello di Palermo. Nello stesso anno la Corte d’Appello di Palermo lo ha condannato a 6 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo d’appello bis; D’Alì, considerato vicino a Messina Denaro, viene inoltre interdetto dai rapporti con i pubblici uffici. «D’Alì, ha manifestato la propria disponibilità verso (o vicinanza a) Cosa Nostra dai primi anni ‘80 del secolo scorso e comunque non vi è prova di una condotta di desistenza dell’imputato
incompatibile con la persistente disponibilità ad esercitare le proprie funzioni ed a spendere le proprie energie in favore del sodalizio mafioso». Inoltre, la Corte nella motivazione della condanna scrive che «D’Alì ha concluso nel 2001 dopo una già ventennale disponibilità verso il sodalizio mafioso, un patto politico/mafioso con Cosa nostra in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale che ha consentito all’imputato di essere nuovamente eletto al Senato (elezione che poi ha costituito da viatico per l’acquisizione dell’incarico di sottosegretario al ministero dell’Interno)».
Il 13 dicembre 2022, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Diventa così definitiva la sentenza emessa nell’estate del 2021 dalla Corte d’Appello di Palermo. L’ex politico è destinato a scontare la pena in carcere.
Nella requisitoria dell’appello bis, la sostituta procuratrice generale di Palermo Rita Fulantelli aveva definito l’imputato “il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”. E lo aveva accusato di aver “contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, mettendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche, e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato”. L’ex parlamentare ha sempre respinto tutte le contestazioni. In una delle udienze dell’appello bis, un testimone dell’accusa aveva raccontato che tutto il cerchio magico di Messina Denaro era presente alla festa per la prima elezione al Senato di D’Alì, nel marzo 1994. D’Alì sarebbe stato il tramite per favorire gli affari della consorteria in più di un’occasione, con il suo potere avrebbe fatto pressioni per trasferire il prefetto e il capo della squadra mobile; avrebbe condizionato anche il mercato del calcestruzzo a favore di ditte vicine a cosa nostra. Alcuni collaboratori di giustizia riferiscono dell’intervento di D’Alì in diversi appalti pubblici, tra cui quelli per il rifacimento del porto di Trapani, che portarono alla Louis Vuitton Cup, e le procedure in favore del Consorzio Trapani Turismo, formato da imprenditori sfiorati da indagini della DIA. Raccontano delle “cene organizzate alla fine delle vendemmie in contrada Zangara con Messina Denaro e il suo cerchio magico, il suo intervento a favore del giovane Matteo per numerosi sub-appalti”. Poi c’è il sostegno elettorale alle elezioni politiche del 1994. Panicola aveva detto: “Salendo lui si risolvono tanti problemi, perchè lui è un uomo che appartiene a noi”.